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Le morti di Deisy Toussaint

Il racconto di Deisy Toussaint che ho avuto il piacere di tradurre e che LaMacchinaSognante ha generosamente deciso di accogliere nel suo spazio virtuale è apparso per la prima volta nel 2013 su Afro-Hispanic Review, rivista accademica di letteratura e cultura afro-ispanica pubblicata dalla Vaderbilt University di Nashville, Tennessee. A distanza di 8 anni, sono convinto resti una lettura incredibilmente attuale, oltre che gradevole, perché rappresentativa di una condizione esistenziale ancora oggi condivisa da decine di migliaia di dominicane e dominicani nati in Repubblica Dominicana da genitori migranti haitiani.

Le due morti personali di cui Toussaint ci racconta in questo testo autobiografico descrivono in forma narrativa quella che l’antropologo Paul Farmer ha definito come “violenza strutturale”, sintesi di una violenza economica e politico-istituzionale che è frutto di diseguaglianze profonde radicate nell’organizzazione sociale stessa di un Paese, e il cui esito può esprimersi in un ampio ventaglio di avversità, dalle più insignificanti alle più drammatiche e fatali. Come la stessa Toussaint arriva a concludere, infatti, le due morti che hanno tragicamente segnato la sua vita “non sono state la conseguenza di un destino crudele e capriccioso, ma la conseguenza di una realtà sociale”.

La seconda morte, in particolare, fa riferimento a una controversa Sentenza del Tribunale Costituzionale dominicano che, proprio nel settembre 2013, decretava come nullo lo ius soli quale criterio valido all’acquisizione della nazionalità dominicana e applicava tale provvedimento in modalità retroattiva (a partire dal 1929), privando della cittadinanza oltre 250mila persone nate in Repubblica Dominicana da genitori stranieri, per lo più haitiani, come nel caso di Deisy Toussaint. Una sentenza che, secondo molti osservatori internazionali, trova ragione in tanto radicati quanto difficili da estirpare pregiudizi razziali nei confronti della popolazione haitiano-discendente, e che Toussaint – cognome oltremodo significativo – ha vissuto sulla propria pelle.

Raúl Zecca Castel, PhD

Antropologo

Due volte sono morta nella mia vita: quando avevo due anni, nel 1989, e quando ne avevo ventiquattro, nel 2011.

 Questa inverosimile affermazione potrebbe tranquillamente indurre alcuni a terminare qui la lettura, ed altri, tuttavia, a proseguirla, forse spinti da una morbosa curiosità. Ebbene, si tratta di un fatto assolutamente vero, o quasi, perché in realtà non ricordo nulla. Almeno della prima morte.

 Dovevo starmene là, fredda, tra quelle quattro mura. Viso pallido, vestitino bianco e una corona di fiori a cingermi la testa. In realtà la mia pelle dovette apparire livida per tutto il tempo che trascorsi all’ospedale Robert Reid Cabral, il vecchio Angelita, presso la città di Santo Domingo. Mi sono sempre domandata cosa poté passarmi per la mente in quello stato di trance. Sentii tutto? Ebbi paura? A quell’età restano solo sensazioni di un ricordo vago, appena percepibile nella memoria. Molto tempo dopo avrei saputo che il responsabile dell’équipe medica aveva firmato con cordoglio il mio certificato di morte e che per quasi cinque ore ero rimasta nel luogo più freddo e macabro della clinica: l’obitorio. Immagino, insieme ad altri cadaveri. E, immagino anche, priva di conoscenza, perché ad averla avuta avrei certo pianto a dirotto. Nessuno seppe chiarire l’origine del mio male ma, a dire la verità, secondo mio padre, Ramón De Jesús, nemmeno rappresentò un fatto sorprendente. Fin dalla mia prematura nascita, a soli cinque mesi e mezzo di gestazione, non aveva voluto farsi illusioni. Non si era nemmeno preoccupato di registrarmi all’anagrafe. Testarda e determinata, mia madre, Ana Rose Toussaint, lo fece al suo posto, affidandomi il suo cognome haitiano.

 Mia madre. Era arrivata in Repubblica Dominicana nel 1977, senza documenti. Rimase in questa parte dell’isola alla ricerca di una vita migliore, considerandola un luogo con maggiori opportunità. Si sposò con Alejandro Pié, haitiano naturalizzato dominicano ed ebbe la sua prima figlia. Tre anni più tardi si separò. Poi conobbe Ramón de Jesús, dominicano, e così fu il turno dei miei quattro fratelli e il mio. La differenza di età tra noi oscillava tra i due e i tre anni. Mio padre si barcamenava tra il mestiere di meccanico e di muratore, ma guadagnava appena per darci da mangiare, mentre mia madre lavorava come domestica, ma arrotondava impiegando tutte le conoscenze di medicina naturale che le aveva tramandato suo padre, Vertizó Toussaint, che a sua volta era nipote di Toussaint Louverture[1]…ma questa è un’altra storia.

 Nella mia memoria più lontana ricordo mia madre come la “dottoressa” del quartiere. In casa arrivavano a qualsiasi ora persone con ogni tipo di malessere che lei trattava, e anche se assicura che non permise mai di farsi pagare per i suoi servizi, è altrettanto vero che si guadagnò una bella fama ed eccellenti relazioni, che in seguito avrebbero propiziato qualche beneficio. In effetti fecero sì che DoñaEmma Balaguer, “sorellissima” dell’allora Presidente[2], le favorisse alcune borse di studio per noi. 

 

 La sfortuna giunse nell’umile dimora sotto forma di una misteriosa malattia che, a quanto dicono, mi colpì all’improvviso. Quando avevo un anno e sei mesi, il mio corpicino mingherlino cominciò a infiammarsi senza causa apparente, almeno per le conoscenze di mia madre. All’ospedale, tuttavia, nemmeno i medici la trovarono e se lo fecero non furono molto espliciti. Inoltre, le medicine che ci prescrissero erano al di là delle nostre possibilità e per comprare latte speciale, sieri e medicine, mia madre si vide obbligata a svendere tutto quanto era in sua proprietà: dai vestiti ai mobili, compreso il letto. Poi, si diede per vinta.

 Stando a quanto dice mia madre, nella mia testolina rasata erano ben visibili i segni di quattordici iniezioni e sessantaquattro punture, che provocarono diverse aritmie o persino arresti cardiaci, e che alla fine mi condussero alla morte. Alla veglia funebre, tra pianti e condoglianze, le persone osservavano commosse il mio cadavere dentro quella piccola bara bianca. I miei genitori, distrutti, mi vegliavano in mezzo alla commozione generale senza riuscire ad accettare fino in fondo la realtà. Mamma guardava e riguardava la mia figura in cerca di un possibile indizio che smentisse tutto. Nel frattempo, qualcuno si occupò delle scartoffie della mia sepoltura. E dopo alcune reticenze dovute alle poche ore trascorse dal decesso, si convenne che sarebbe avvenuta alle cinque del pomeriggio. Il motivo era deprimente: posticiparla al giorno successivo avrebbe comportato i primi sintomi di decomposizione. Insopportabile per i miei. 

 Al momento di sigillare la bara, mia madre scoppiò in lacrime avvinghiata al piccolo feretro. Dovettero unire le loro forze diverse donne per strapparla da quell’abbraccio spasmodico. Siccome la situazione economica non permetteva di realizzare una cerimonia funebre, decisero di trasportarmi in ambulanza a casa, dove mi avrebbero vegliata fino all’ora di intraprendere il funesto percorso verso il cimitero. Lì mi avrebbero sepolta all’orario convenuto e mi avrebbero offerto l’ultimo addio. Si pianse molto. Anche se tutte le veglie funebri sono tristi in sé, trattandosi di una bambina il dolore assunse vero protagonismo e non lasciò spazio ad alcun pettegolezzo, commento malizioso o persino alle battute tipiche in altro tipo di sepolture. In quell’occasione, i singhiozzi sembravano sinceri e le lacrime spontanee. L’afflitto domicilio fu pervaso da un’atmosfera densa, lenta e greve, dove le pene erano genuine, le condoglianze sincere e la commozione inesauribile, evidente persino nei tipi più duri e indolenti del quartiere.

 E così arrivò il momento. Qualcuno intimò di chiudere definitivamente la bara per il trasporto all’ultima dimora. Mia madre continuava a impedirlo ostinatamente e dovettero di nuovo strapparla dal piccolo feretro. A quanto mi dicono, ci furono urla, svenimenti, quasi un’isteria collettiva. I più sereni cospargevano di alcool i loro fazzoletti e li facevano annusare alle donne più afflitte. Alcune, appena rianimate tornavano a soccombere sotto il peso di tanto dolore. Arrivò un momento in cui mia madre cadde in una specie di letargo durante il quale emetteva solo un lamento costante, qualcosa come un sibilo rauco. Fu allora che ne approfittarono per chiudere la bara, portarla in strada e caricarla sull’ambulanza che mi avrebbe condotta al camposanto Cristo Salvador, nei pressi di San Isidro, a Santo Domingo Est. Due vicine tirarono su come poterono la povera donna, scoprendo all’improvviso una forza animale che irrompeva dal suo profondo spingerla ad uscire di corsa, chiedendo, implorando, supplicando, urlando con tutta l’aria che aveva nei polmoni che aprissero la bara. Nessuno sapeva come comportarsi al cospetto di tanta determinazione, nemmeno mio padre. Nessuno si azzardava ad aprire bocca. Dovette intervenire mio zio Martín, l’unico che conservava una qualche integrità, per decidere che si concedesse a mia madre la possibilità di vedere sua figlia per l’ultima volta. Aprirono di nuovo il feretro e lì, in quell’interno bianco e soffice, dovette percepire o intuire qualcosa, un filo di speranza, un soffio di vita… Le mie palpebre si mossero. Le sue preghiere erano state ascoltate. Non ebbe alcun dubbio: mi prese in braccio e cominciò a correre come una pazza. Quando i presenti, sconcertati, cercarono di reagire, aveva già guadagnato sufficiente distacco con sua figlia tra le mani. Con il timore che gliela sottraessero per restituirla alla bara, percorse la via a tutta velocità finché raggiunse un autobus urlando che sua figlia non era morta, che la portassero all’ospedale. I passeggeri, disorientati, scesero dal bus e, racconta mia madre, l’autista, dopo uno sguardo veloce ai miei occhi tremolanti, in una torsione esagerata del busto verso il sedile posteriore, prese il mio faccino con una mano scuotendolo con una certa rudezza per verificare che effettivamente non fossi morta. Un ruggito del motore e lo stridere delle ruote sull’asfalto trasformarono presto quel rottame in un bolide e l’autista in un pilota di formula uno che si faceva largo nel traffico con temerarietà. Contravvenendo a quasi tutte le norme del codice della strada, il risultato fu che dopo pochi istanti una pattuglia della polizia cominciasse un inseguimento da film, dietro il quale già si accodavano diverse moto, alcune con familiari o vicini, che le avevano inforcate quasi al volo. Qualcuno riuscì a salire sull’ambulanza che, a sirene spiegate, chiudeva la coda dell’inseguimento. Altri ancora, con tutta l’energia che gli propiziavano le gambe, correvano verso la strada principale cercando di fermare qualche veicolo e, da quel che raccontano, persino alcuni cani si unirono alla scia di quella bizzarra processione alla quale, tra l’altro, mio padre non poté partecipare visto che fu colpito da un capogiro appena ebbe inizio quella folle e insolita corsa. Il seguito non è nulla di trascendentale: pronto soccorso, rianimazione e stabilizzatori del ritmo cardiaco… La diagnosi? Un attacco di catalessi in cui i miei segni vitali erano scesi così tanto da ingannare lo stetoscopio della guardia medica. E a non essere per l’intuizione e la tenacia di mia madre, avrei potuto benissimo risvegliarmi da quello stato di trance già diversi metri sottoterra. 

 A titolo di aneddoto resta da aggiungere che, non molto tempo fa, tornando a casa dall’università, appena mia madre mi vide arrivare, si rivolse singhiozzando a un signore a me sconosciuto assicurandole che ero proprio io la bambina… L’uomo, incontenibile, cominciò anch’egli a piangere e io, seppure ancora senza conoscerne il motivo, finii con l’unirmi a quell’incontro lacrimevole. Quando la situazione si fu calmata, venni a sapere che lo sconosciuto in questione era l’autista ribelle che mi aveva temerariamente condotta in ospedale e che si era messo a indagare nel quartiere fino a trovarci, venti e passa anni dopo la mia prima morte.

 Poi, la mia vita proseguì con una certa normalità, bè, tutta quella che la mia apprensiva madre permise, visto che a partire dalla mia “resurrezione” mi trattava come fossi di porcellana. Dopo quel fatto, mio padre andò a vivere nella parte francese dell’isola di San Martin, nelle Antille minori, in cerca di migliore fortuna. Era la fine del 1989. Mia madre restò sola a Santo Domingo con cinque bambini da crescere, senza mobili, senza niente, anche senza lamenti. Aveva ritrovato sua figlia. 

 Durante il primo anno, mio padre ci spediva soldi, vestiti e medicine, compreso il latte speciale che io dovevo assumere mentre mi ristabilivo e imparavo lentamente a camminare durante lunghe sessioni di riabilitazione. Poi cominciarono a passare i mesi, che divennero anni, senza ricevere le sue solite lettere, senza ricevere nessun aiuto, senza sapere più niente di lui. Semplicemente scomparve dalle nostre vite. A quel tempo non potevo sapere che mia madre piangeva tutte le notti, angosciata dal pensiero di come tirare avanti con i suoi figli, vivendo in affitto, senza un mestiere e da haitiana, motivo per cui fu sempre rifiutata dalla famiglia di mio padre. Il suo fardello era davvero pesante e la situazione disperata. A darle qualche forza solo il ricordo delle parole del suo defunto padre: “un Toussaint non piange”.

 A poco a poco, e con tutte le difficoltà e precarietà immaginabili, tirò su la nostra casa con assi di legno e vecchie lamiere. Poi, umilmente, la ammobiliò con l’essenziale. Estranea a qualsiasi dramma, crescevo. Mia sorella Wendy e io studiavamo al collegio delle suore San Andrés di Boca Chica e trascorrevamo a casa solo i fine settimana. E sebbene punteggiata da certe deferenze e attenzioni che mia madre mi dispensava sempre, mi formai e avviai la mia carriera quasi dimentica di quell’episodio della mia infanzia che, per quanto traumatico, per me rappresentava ormai solo una - magari un po’ macabra - storiella familiare.

 La mia seconda morte arrivò anch’essa all’improvviso. In quel caso non persi conoscenza, ma quasi. Tutto ebbe inizio una torrida mattina in cui feci richiesta del passaporto per viaggiare a Cuba dopo aver vinto un premio di racconti al Concorso Nazionale per Scrittori organizzato dal Ministero della Cultura. Non potevo immaginare che sarebbe stata la prima di una serie infinita di visite alla Direzione Generale dei Passaporti. Una volta depositati i miei documenti - certificato di nascita, copia della carta di identità, foto e ricevuta delle tasse pagate più IVA - mi aspettavo la consegna del passaporto nel giro di poco tempo. Il primo colpo lo accusai quando, incredula, mi sentii dire dal funzionario che avrebbe sottoposto il mio dossier all’ufficio legale affinché fosse verificato, visto che il mio cognome era francesizzante. Quando constatai che non si trattava di uno scherzo di cattivo gusto dell’impiegato allo sportello, mi rivolsi io stessa a suddetto ufficio affinché mi spiegassero la ragione di tale ingiuria. Continuai ad ascoltare spiegazioni tanto assurde quanto indignanti. Ben tre impiegati confermarono e assicurarono che il mio cognome rivelava origini haitiane. Non potei ascoltare oltre e chiesi di parlare con la direttrice dell’istituto. Causa persa. Dopo molte insistenze mi diressero all’Ufficio Frodi, al cospetto di un colonnello che, severo e rigoroso, mi chiedeva come potevo dimostrare il fatto di esser nata in Repubblica Dominicana, quasi come se stesse interrogando un presunto criminale. In effetti, mi trattarono come una truffatrice comune. 

Provai rabbia, impotenza. Sentivo un nodo soffocarmi la gola e uscii di lì scioccata, cercando di digerire tutto quanto. Mi negavano i miei documenti, i miei progetti, i miei diritti come dominicana, nata e cresciuta in questo paese, senza un’altra cultura, un’altra bandiera o un’altra educazione. All’improvviso ero rimasta senza nazionalità. Mi ero trasformata in una morta civile. Il mio lento incedere da zombi lo confermava. Dopo ventidue anni, tornavo ad essere morta, civilmente e moralmente morta. Ma a differenza della prima volta, adesso ero pienamente consapevole, e dentro di me cercavo un confronto impossibile. Quando avevo due anni ero rimasta in balia degli eventi; questa volta, invece, l’ingiustizia scuoteva tutta la mia indignazione, anche se non sapevo cosa fare né a chi rivolgermi. A partire da quel momento avrei perso opportunità, sarebbero stati repressi i miei progetti e, cosa peggiore, questo stato di trance avrebbe potuto generare in me problemi di identità. 

Discendere direttamente da Toussaint Louverture per me non era mai stato niente di più che un aneddoto. Mai mi ero sentita discriminata per quella ragione. Piuttosto il contrario. Ma ora mi avevano messa davanti a uno specchio discriminante in cui, oltre alla giovane dominicana che ero stata, si rifletteva anche la mia origine haitiana materna per mettere in questione la mia dominicanità. In quel momento riuscii solo lontanamente a intuire la lunga via crucis che mi attendeva in una voragine di tramiti, sentenze, tribunali, avvocati, alleati, detrattori, ONG, razzismi, ultranazionalismi, denunce, articoli, interviste, ecc, che qualcuno di spirito calmo come me avrebbe dovuto affrontare per mantenere viva la speranza di resuscitare una seconda volta. Nemmeno sapevo che avrei dovuto emulare mia madre e armarmi di tutta la sua tenacia per liberarmi da questa seconda trappola che il destino beffardo mi aveva teso.

Mai avrei potuto immaginare che l’opinione pubblica dominicana avrebbe sofferto una dicotomia così profonda tra due parti contrapposte: una, guidata dal settore ultranazionalista antihaitiano, inevitabilmente contrassegnato da connotazioni di vecchio razzismo, che sosteneva a oltranza la Sentenza del Tribunale Costituzionale 168-13[3] (la quale applicava in modo retroattivo, per oltre 80 anni, la riforma costituzionale del 2010); e l’altro, che includeva il settore più liberale e colto del paese, contrario a una Sentenza che oltre a me, avrebbe gettato in un vulnerabile stato di limbo legale una moltitudine di dominicani di origine haitiana. Eppure, continuo a mantenere la speranza che questa, tanto quanto l’altra, sia solo una morte apparente. E che un giorno venga abrogata questa assurda Sentenza.

Nel frattempo, però, in questa intima riflessione sulla mia vita e le mie morti, mi coglie il sospetto che tanto l’una quanto l’altra non siano state la conseguenza di un destino crudele e capriccioso, ma la conseguenza di una realtà sociale. Mi vengono i brividi al solo pensiero che una razza o una nazionalità siano ciò che, puntualmente, determinano il destino di chiunque. Non voglio nemmeno pensare che quella mia prima morte apparente, in altre circostanze, avrebbe potuto essere individuata e trattata correttamente fin dal suo nascere. Si sarebbe evitata molta sofferenza. E nemmeno mi azzardo a constatare che il mio cognome e il colore della mia pelle abbiano ostacolato la mia vita. Non nel mio paese. Non in questo tempo.

 

[1] Toussaint Louverture (1743 – 1803), nato schiavo nella colonia francese di Saint-Domingue, fu l’eroico condottiero che guidò la Rivoluzione haitiana del 1791.

[2] Joaquín Balaguer (1906 – 2002), avvocato e politico dominicano, è stato il braccio destro del dittatore Trujillo durante gli anni del sanguinoso regime che soggiogò il paese tra il 1930 e il 1961 e, in seguito, a sua volta presidente della Repubblica Dominicana in tre occasioni, fino al 1996.

[3] La Sentenza 168 del Tribunale Costituzionale dominicano, emessa nel settembre del 2013, modificò le norme per l’acquisizione della nazionalità dominicana, abolendo il criterio dello ius soli a favore del solo ius sanguinis. La Sentenza fu applicata retroattivamente, a partire dal 1929, e decretò la denazionalizzazione di oltre 200.000 persone, per lo più cittadini dominicani di origine haitiana. Cfr. https://www.amnesty.org/download/Do...;

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