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Meloni e lo spread sulla realtà

Inutile prendersela col premier italiano, e con chi le scrive i testi, per i lisergici sfondoni economici. Ormai tutto il pianeta si nutre di assurdità per creare e mantenere consenso e sfuggire alla dura realtà.

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Rispondendo in aula durante il cosiddetto Premier Time, il/lo/la/id presidente del consiglio, Giorgia Meloni, ha detto: “Sapete che non ho mai reputato lo spread un totem della reale forza economica di una nazione […] ma oggi è sotto i 100 punti”, cioè “i titoli di Stato italiani vengono considerati più sicuri dei titoli di Stato tedeschi”. Ovviamente l’inferenza è assurdamente errata: i titoli di stato italiani rendono un punto percentuale più dei corrispondenti titoli governativi tedeschi, quindi sono e restano più rischiosi.

Affianco alla premier, il ministro dell’Economia e Finanze, Giancarlo Giorgetti, scuote la testa in segno di diniego, sorridendo bonariamente. A questo punto, si impongono alcune domande. La prima delle quali è: Meloni stava leggendo un testo, lo ha seguito sino in fondo oppure sullo spread ha deciso di chiosare per orgoglio di patria? A quest’ora la cosa sarà già stata chiarita, e l’eventuale responsabile catechizzato in sala mensa. Magari candidato a rimozione-promozione alla guida di qualche partecipata pubblica. 

Quello che resta oggettivo è la drammatica ignoranza di temi economici di base da parte del presidente del consiglio di un paese del G7, risorto a nuovo orgoglio patriottico per motivi che restano insondabili. Potremmo scalare la classica vetrata dicendo che forse Meloni ha scambiato lo spread col livello di rendimento ma in quel caso servirebbe l’antidoping, più che un corso di recupero. Potremmo ipotizzare che Meloni (meglio, chi le ha scritto l’appunto) stesse argomentando in base alla leggendaria derivata seconda, ma in quel caso si sarebbe dovuto dire che “il nostro debito è sempre meno rischioso rispetto a quello tedesco”, e voi capite che sarebbe stato un concetto non particolarmente sexy.

Spingere l’ombelico oltre confine

Potremmo anche aggiungere che ieri abbiamo avuto importante riscontro di quali sono le materie che dovranno arricchire il programma del liceo del Made in Italy. Al netto dei lazzi, anche partendo dall’incoercibile ignoranza della nostra classe politica/sindacale/giornalistica, sarebbe preferibile non muoversi nel vuoto dei neuroni e del nostro imprescindibile ombelico, e osservare cosa accade ai paesi con cui ci confrontiamo.

Cioè quelli dell’Eurozona. Se lo facessimo, come buona prassi di vita, scopriremmo che gli spread contro Germania sono da tempo in corale ripiegamento per motivi che possono essere ricondotti alla decisione tedesca di espandere la propria politica fiscale e al percorso di riduzione dei tassi da parte della Banca centrale europea. Condizioni che rappresentano un ottimo habitat per spingere i crediti più rischiosi, quale è il nostro.

Se poi spingessimo lo sguardo anche ad altri debiti sovrani dell’Eurozona, scopriremmo che la Grecia ha un debito pubblico che, sulla tradizionale scadenza decennale, rende 30 centesimi meno del nostro. Cioè è meno rischioso del nostro. Oppure, detto melonianamente, è più sicuro del nostro. Per non parlare di quelli di Spagna e Portogallo, che sono ormai paesi solo nominalmente periferici all’Eurozona, nel senso di rischiosi. Presto, quel titolo spetterà alla Francia e ai suoi robusti guai di non crescita che alimenta buchi di bilancio.

Il decennale italiano rende circa 40 centesimi più di quello spagnolo e 50 più di quello portoghese. Tutto questo per dire che i rendimenti assoluti del debito sovrano in Eurozona sono calati tutti ma in termini relativi il debito sovrano italiano resta il più rischioso. Gli stessi “progressi” italiani in termini di miglioramento di rating (per quello che ciò può valere) sono eguagliati o superati da quelli di altri paesi, ex periferici.

Oggi, sui quotidiani filogovernativi, si leggono arrampicate sugli specchi che eludono lo sfondone della premier per concentrarsi sulla derivata seconda, cioè “e allora, gli altri?”. La Germania non cresce più, la Francia non ne parliamo, quando Meloni è diventata premier (altro contesto macro globale) lo spread era 250 e così spero di voi. Questa performance di coprofagia militante è identica a quella degli anchor delle tv statunitensi trumpiane, che in questi giorni si esibiscono in assurdità del tipo “Avete visto? Dovevamo morire tutti di dazi e invece l’inflazione è scesa”.

Lo stile italiano nel mondo

Svetta, in questo panorama di propaganda disinibita, la figura di Maria Bartiromo di Fox News, veterana dell’informazione economico finanziaria che ricordavamo piuttosto preparata e oggi ridotta al ruolo di attempata cheerleader di Trump, con cui mena vanto di aver pranzato alla Casa Bianca di recente. “I prezzi delle uova scendono, la benzina scende, l’inflazione scende, il sole splende”. Manco fosse un’iscritta all’Ordine dei giornalisti che presta la sua opera sui giornali vicini all’attuale maggioranza italiana pro tempore. Dei giornali nostrani dell’altro lato della barricata non parlo ma solo perché per il momento non sono al governo, non perché li consideri modelli di giornalismo.

È il processo di instupidimento delle società contemporanee occidentali. Quello dei gettonisti della disinformazione e del sole che sorge dove preferite. Inutile prendersela con Meloni, il cui curriculum di studi è noto e non da oggi. Del resto, con quello che gira nelle università italiane, e di cui abbiamo quotidiani riscontri nelle prese di posizione di altri politici dotati del leggendario pezzo di carta (anche se preso in corso e non con esami domenicali in batteria presso atenei eterei nel senso di online), è futile rifugiarsi nel concetto di competenza.

E quando Robert F. Kennedy Jr. arriva a guidare la politica sanitaria della prima potenza mondiale, voi capite che è molto difficile prendersela con una diplomata convinta di essere al centro d’Europa e del mondo, manco si trovasse in un bar di Foligno. Piuttosto, c’è da compiacersi per quanto lo stile italiano si sta diffondendo all’intero pianeta, e lottare contro l’Italian sounding delle stronzate. Del resto, to spread vuol anche dire diffondere, pure in modo virale. E per questo virus non c’è ancora vaccino.

(Photo by governo.it – Immagini messe a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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