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La madre turca

Una notizia di stampa - tutta da verificare - ci fa il racconto straziante di una madre turca, a passeggio con i figli, che, insospettita per l’atteggiamento di una giovane donna, le va incontro e cerca di fermarla perché ha capito che si tratta di una attentatrice suicida. Curda.

L’atto eroico, che le costa la vita insieme alla terrorista, salva i tre figli rimasti feriti in modo lieve.

Segue la santificazione sulla stampa nazionale della donna e del suo essere madre, costi quel che costi. Non voglio dileggiare, capiamoci. Non so se la notizia è vera, ma nel caso lo fosse a questa donna devo il massimo rispetto.

Non sfugge tuttavia, nel nuovo accanirsi delle cose turche, l’enorme portata simbolica della madre che si sacrifica dando la vita, per la seconda volta, ai propri figli; e non sfugge il fatto che non ci sia fatta sfuggire l’occasione per costruirci sopra un’icona.

La madre diventa in queste occasioni la Madre, si sa. L’emblema di tutto ciò che di più struggente l’umanità possa concepire. La Mater dolorosa, la Mater lagrimosa, sempre affranta, sempre straziata, sempre pronta al dono supremo. E’ forse l’antico ricordo del parto, quando le donne, certo non volendolo, morivano nel mettere al mondo i propri figli.

Ed è l’immagine che ogni soldato deve portare in sé, volontariamente pronto - lui sì - a dare la propria vita per la patria. Per dovere, ma anche - il dovere, si sa, a volte non basta - per imposizione “interna”. Imposizione derivata da quella madre interiorizzata. La propaganda serve a questo. Simboli, insomma, ma con capacità di agire dall’interno molto più di quello che potrebbe fare ogni imposizione esterna.

Poi c’è l’altra. La curda. L’assassina. La suicida. La martire. La terrorista. L’idealista. A seconda dei punti di vista. Un ventaglio di colori la dipingono passando dall’infrarosso all’ultravioletto. Colori che i difensori della Nazione esistente o di quella mai esistita attingono a piacere dalla tavolozza delle rispettive ideologie.

Forse era una madre anche lei. Giovane probabilmente. O una donna sola a cui hanno ucciso il marito, il fidanzato, il fratello, il padre. Piena di odio, di sete di vendetta. Chissà. Che cosa può aver portato una ragazza con tutta la vita davanti a imbottirsi di esplosivo e andare a morire e a fare morti? Aveva una méta? Andava a casaccio? Cercava qualcuno o solo un luogo affollato?

Forse mirava a sopprimere un assassino, un torturatore, un generale o forse pensava solo a fare sangue. Tanto. Il più possibile.

Che cosa avranno pensato nel momento in cui i loro occhi si sono incrociati? L’attimo in cui l’una ha visto la morte cercata e voluta e l’altra la morte arrivata all’improvviso, inaspettata? Avranno pensato ai propri affetti perduti e a quelli da proteggere ad ogni costo o avranno solo urlato di terrore, come animali feriti?

Qualcuno, chissà perché, li chiama kamikaze. Come i soldati giapponesi, che però si gettavano sui militari nemici, non sui civili. Questo è solo terrorismo, l’arma dei poveri. Che noi siamo pronti a comprendere e a giustificare, magari a mezza bocca, tanto per salvare le apparenze, ricorrendo alla bilancia: non fanno così anche gli stati? Non sono anche loro dei terroristi?

Oppure a condannare senza appello e senza mediazioni.

Dipende, tutto è molto, molto relativo. Prima stabiliamo chi sono i buoni e chi sono i cattivi e dopo decidiamo se quello che salta è un eroe o un ignobile assassino. Curdi, palestinesi, turchi, israeliani, ceceni, russi. Fate voi.

Oggi ci siamo commossi per la madre turca. Quando qualcuno ci racconterà la storia della giovane curda non negheremo nemmeno a lei la nostra commozione.

Poi di nuovo gireremo pagina. E' la stampa, bellezza.

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