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La guerra siriana ed il pacifismo monodirezionale

Più di una volta mi sono chiesto qual è il vero motivo per cui, di fronte alla continua, feroce repressione del governo siriano contro i suoi oppositori civili (e, per ora, pare anche disarmati), ci sia una vaga, ma sostanziale inerzia sia della politica (intendo la politica tutta, da quella della Lega Araba a quella Occidentale e giù giù fino ai singoli partiti del nostro paese) sia delle opinioni pubbliche.

Quando Israele fece guerra le manifestazioni di piazza furono massicce, partecipate (e comprensibili) in tutto il mondo. Accadde quando subì l’uccisione ed il rapimento di suoi soldati al confine libanese ed iniziò quella drammatica guerra del 2006 immediatamente ribattezzata “aggressione al Libano”, (separando un po’ forzosamente le responsabilità del paese da quelle del partito, come se Hezbollah, autore dell’attacco, non fosse la più ampia e organizzata forza politico-militare libanese), e di nuovo quando - alla fine di un crescendo impressionante di razzi e colpi di mortaio da Gaza (oltre 5000 - cifre del rapporto Palmer - dal giorno del ritiro israeliano nel 2005; cioè una media di quasi tre al giorno, tutti i giorni, per cinque anni) – scatenò l’operazione Piombo Fuso.

Entrambi i conflitti portarono a bombardamenti devastanti e all’uccisione di ‘operativi’ di Hezbollah e di Hamas, ma anche di molti civili, il che fu motivo delle proteste internazionali.

Le manifestazioni contro i due interventi israeliani furono notevoli; oggi invece non vola una mosca. Notizie di fonte ONU parlano ormai di 5000 morti in Siria (oltre a decine di migliaia di feriti, di profughi, di scomparsi, di arrestati e torturati). Sono il doppio di entrambe le guerre israeliane messe insieme. Eppure nessuno protesta, nessuno manifesta, nessuno brucia bandiere, nessuno propone boicottaggi o Freedom Flotilla indirizzate verso le coste siriane. Perché?

Non è una domanda retorica e nemmeno provocatoria (sì lo è, ma solo un poco). Perché decine di migliaia di persone che ritenevano – giustamente, comprensibilmente - di voler dimostrare la propria opposizione all’uccisione di altri esseri umani, perlopiù civili, oggi dimostra in modo così plateale di essere totalmente indifferente o rassegnata o priva di volontà nello scendere in piazza ad urlare al governo siriano di smetterla? Nessuno si rende conto che mai come in questo caso la logica dei due pesi-due misure mina alla base la credibilità di un pacifismo che appare evidentemente monodirezionale?

La prima risposta che mi sono dato è banale (e sconfortante): dal momento che i siriani non sono occidentali, non sono – a prescindere – parte dei “cattivi”. Il regime siriano, figlio di quel baathismo socialisteggiante apertamente sostenuto dall’Unione Sovietica durante la guerra fredda, rientra (ormai solo nell’immaginario) in quel campo antimperialista terzomondista d’antan cui guardava con sottile speranza e fascinazione la sinistra radicale di tanti anni fa (me lo ricordo bene perché c’ero anch’io).

La guerra al capitale passava anche da quelle latitudini secondo la logica di allora. Che oggi tutti quei regimi (tunisino, yemenita, siriano, libico, egiziano) si siano rivelati dittature spietate e sanguinarie, opprimenti e repressive, politicamente antidemocratiche e ferocemente disumane, pare che faccia fatica a insinuarsi nella testa di chi osserva. Così, non potendo - se non in rari casi di demenzialità continuata ed aggravata - schierarsi a favore dei dittatori, semplicemente si opta per un’astensione un po’ (parecchio) ipocrita.

La seconda risposta è che, essendo islamici, qualsiasi cosa facciano rientra in un campo che a “noi” (a noi occidentali) non interessa: guardiamo alle cose di casa loro con l’occhio disinteressato di chi osserva manifestazioni esotiche, folklore orientale. E’ un atteggiamento culturalmente colonialista che qualcuno ha definito “orientalismo”. Roba da indigeni vagamente incivili, che vuoi che ci importi?

Forse sono troppo aspro, ma non riesco a capire come sia possibile guardare con tale noncuranza ad una mattanza quotidiana che continua, giorno dopo giorno, da mesi. Senza che nessuno muova un dito o alzi una voce o inalberi un cartello di condanna. Una sordina sospetta.

Detto questo e sottolineata l’insopportabile faziosità di comportamento della sinistra italiana, evidentemente incapace di liberarsi da schemi mentali da politburo, una riflessione un po’ più politica forse è necessaria.

E’ evidente che l’eventuale crollo della Siria avrebbe un senso diverso da quello libico, che si è potuto facilmente prendere e inserire in uno dei ‘classici’ conflitti per il possesso delle fonti energetiche; con gli schieramenti, tutto sommato semplici, a favore o contro l’intervento. Il terzomondismo e l’anticapitalismo (antiamericanismo) qui aveva gioco facile. Anche rispetto al “filoisraeliano” (o più verosimilmente “anti-fratellanza musulmana”) e filoamericano Mubarak la scelta a favore del popolo in subbuglio appariva priva di contraddizioni. Nel caso della Siria la questione è più complessa.

Affondare il paese (a maggioranza sunnita) dell’alauita (sciita) Assad vorrebbe dire aprire una faglia tra il mondo sunnita e quello sciita in fragile equilibrio. Sunniti e sciiti – superfluo aggiungere che se le danno da un millennio abbondante - oggi si confrontano a suon di bombe in Iraq dove l’influenza iraniana è notevole (altro bel successo della dottrina Bush), ma collaborano ai confini di Israele. Gli Hezbollah sciiti, foraggiati da Teheran via Siria, si coordinano cercando allo stesso tempo di controllarli, con i palestinesi (sunniti) di Hamas e della Jihad islamica. I sauditi (sunniti) finanziano le fazioni palestinesi cercando di equilibrare il peso forte di Damasco, con un occhio a Baghdad, uno al Cairo e uno a Teheran (e forse sarebbero quelli più favorevoli ad un ridimensionamento ‘robusto’ del regime dei mullah).

Gli israeliani (curiosamente – ma forse non è del tutto cervellotico - accusati di essere sia i fomentatori dei ribelli siriani, sia i sostenitori dello status quo, cioè del regime) potrebbero vedere con favore l’interruzione di quella catena di comando che dall’Iran arriva al Libano minacciando pesantemente il loro confine settentrionale, ma un nuovo asse ‘forte’ fra governi sunniti omogenei (Egitto, Siria, Giordania, Palestina, Arabia Saudita), con alle spalle una Turchia sempre più ingombrante, potrebbe essere meno preferibile alle diatribe fra filoiraniani e antiiraniani. In fondo divide et impera è logica essenziale per la loro sopravvivenza.

Nel frattempo gli americani muovono avanti e indietro al loro flotta, stretti fra la voglia di menare le mani di nuovo e il doppio gap del disavanzo pubblico e delle prossime elezioni. Obama avrà voglia, dopo aver ritirato le truppe da tutti i fronti, di presentarsi al voto come quello che ha scatenato la guerra presumibilmente più devastante? E l’Iran non approfitterà di questa semiparalisi americana? E Israele, nonostante le incertezze del grande partner e – anche lì – delle prossime elezioni (nel 2013, ma si parla diffusamente di elezioni anticipate), potrà permettersi di aspettare che l’Iran si doti di armi atomiche? Le minacce che riceve sono reali o immaginarie? E perché l'Iran si vuole dotare di armi atomiche (negandolo, ma è lampante la menzogna) in aperta violazione del trattato di non proliferazione che pure (a differenza di israele) ha sottoscritto ?

Tutto questo gran calderone, che si sta avvicinando molto pericolosamente alla temperatura di ebollizione, spiega le molte titubanze della politica mondiale. Mai come in questo caso è legittimo parlare di pedine piazzate sullo scacchiere per una partita mortale, con continui millimetrici aggiustamenti da fare ora per ora, momento per momento.

Ma nulla, nemmeno le complicatissime vicissitudini del vicino oriente, spiega e giustifica il silenzio dei ‘pacifisti’ e dei popoli di sinistra davanti alla continua, agghiacciante, mattanza siriana. “Pacifista” non è un termine che si può usare al posto di “Anti” (antiqualcosa, antiqualcuno). Significa essere a favore di una soluzione delle dialettiche internazionali escludendo il ricorso alla forza militare. Sempre e comunque. In caso contrario si deve ammettere che l’uso dell’obbrobrioso termine “pacifinti” è davvero adatto alla bisogna.

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