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La critica al neoliberismo e il successo delle destre

Non si può negare che gran parte della crisi politica europea, che è principalmente crisi delle due grandi famiglie politiche del Novecento – i conservatori/liberali e i socialisti/socialdemocratici – derivi in buona misura dalla liberalizzazione dell’economia che conosciamo con il nome di “neoliberismo”.

Vale a dire da quell’orientamento di politica economica che rifiuta ogni tipo di regolamentazione da parte dei sistemi politici – fra cui quindi ogni ipotesi di redistribuzione della ricchezza fra classi sociali diverse – nella convinzione che il mercato sia capacissimo di regolarsi da sé. In sintesi un ritorno estremizzato alle origini della teoria economica classica che, a partire dalla crisi del 1929 , era finita sul banco degli accusati da parte degli economisti di parte keynesiana e quindi, grazie a questi, sostituita per un certo numero di decenni da forme di regolamentazione statuale variamente declinate. È sufficiente la voce “neoliberismo” su Wikipedia per farsi un’idea almeno grossolana della sua storia e delle sue caratteristiche. E del fatto che spesso si ritiene la globalizzazione dell’economia un effetto delle politiche neoliberiste.

A parziale difesa della sua efficacia non si può dimenticare che nel periodo di espansione della globalizzazione uno degli effetti è stato anche il crollo verticale della “povertà estrema globale”: se nel 1990 il 35% della popolazione mondiale viveva sotto la soglia della povertà estrema (1,90 dollari al giorno a parità del potere d’acquisto del 2011), nel 2015 tale percentuale era ridotta al 10%. Anche se – a fronte di un dato positivo così significativo – ne va ricordato anche uno estremamente negativo come l’allargamento a dismisura della forbice tra i più ricchi e i più poveri: una sperequazione che è stata poi alla base delle proteste cosiddette del “99%” (i più disagiati) contro l’1% dei più benestanti.

Come ricorda un rapporto Oxfam «Con il riferimento al quarto di secolo 1988-2011 in cui il numero delle persone in condizioni di povertà estrema si è ridotto consistentemente, i successi da celebrare vanno di pari passo con gli squilibri nella ripartizione del surplus di reddito globale (il dato per l’Italia non è difforme, sebbene meno accentuato): i redditi del 10% più povero al mondo è aumentano mediamente di appena 3$ l’anno nel periodo di riferimento, mentre l’1% più ricco ha beneficiato di un incremento annuo medio 182 volte superiore».

E la questione della concentrazione della ricchezza, accanto a problematiche di tipo etico, ne solleva molte, ovviamente, anche sul piano politico; più precisamente sul piano dell’effettivo potere politico se un pugno di persone hanno più ricchezza di numerosi stati messi assieme.

I movimenti di protesta contro la globalizzazione, partite dall’improvvisa fiammata di violenza di Seattle nel 1999 per arrivare alle cupe giornate di Genova 2001, hanno visto all’inizio un prevalere - pur se in un ambito complessivamente eterogeneo e con qualche contaminazione, soprattutto in Francia, di tendenze destrorse - delle tematiche “di sinistra”.

Contestazioni che si riferivano quindi alla classica impostazione anticapitalista dei movimenti marxisti o terzomondisti, a partire essenzialmente dalla critica al ruolo che la “scuola di Chicago”, e degli economisti cileni detti “Chicago boys”, avevano avuto nel golpe militare in Cile.

Ma oggi non potremmo più essere del tutto sicuri che questa affermazione sulla collocazione politica dell’ anti-neoliberismo sia del tutto corretta.

Accanto all’indiscutibile persistenza di un’opposizione di sinistra (in Italia ci piace ricordare un economista particolarmente originale come Andrea Ventura – La trappola. Radici storiche e culturali della crisi economica, Il flagello del neoliberismo. Alla ricerca di una nuova socialità – che ha elaborato una sua proposta arricchendola di tematiche psicologiche desunte dalla differenziazione fagioliana tra “bisogni materiali” ed “esigenze umane”) non possiamo non prendere atto che è l’opposizione “da destra” all’economia di mercato senza regole che sembra aver preso negli ultimi anni l’iniziativa e, forse, a essere diventata oggi prevalente.

Nell’occhio del ciclone in particolare il progetto di costruzione dell’Unione Europea molto orientata, come si sa, a darsi un assetto strettamente costretto nei limiti voluti dai principali artefici (neoliberisti) delle sue politiche economiche e ben poco capace invece di assumere su di sé quella sovranità che ne farebbe un vero Stato; la causa prima non è, ovviamente, dell'Europa in sé, quanto della scarsissima (nulla) volontà degli stati nazionali di cedere al progetto europeo la necessaria sovranità su temi fondamentali.

È forse a partire dalll’estate del 2016 – senza con questo voler negare la persistenza da tempo di un anticapitalismo di destra e di estrema destra – che ha preso forma sia economica che politica e si è attivato un movimento globale apertamente destrorso, orientato non solo contro la globalizzazione finanziaria e il capitalismo neoliberista, ma anche contro il liberismo in sé e le sue articolazione politico-sociali che caratterizzano l’intero sistema di valori delle democrazie liberali. Le sue radici naturalmente sono molto precedenti, ma nel 2016 si è verificato un fatto cui non è stata data, a mio parere, sufficiente rilevanza.

Era il 25 luglio quando, secondo il think-tank russo Katheon, «Putin ha dato finalmente il segnale verde al club Stolypin contro i liberali di Alexei Kudrin, quelli che avevano portato la Russia ad una recessione politica ed economicamente pericolosa con la loro ideologia del libero mercato “conforme a quella occidentale”». In sintesi un cambio di rotta di 180 gradi della politica economica russa, ma anche un cambiamento radicale della sua politica estera, dal momento che i liberali dell’ex ministro delle finanze Kudrin erano “proni”, secondo le accuse, ai diktat del Fondo Monetario Internazionale, mentre gli economisti del club Stolypin proponevano un piano quinquennale finalizzato a difendere e affermare la sovranità economica della Russia. Anche se effettivamente nell’ultimo trimestre del 2016 l’economia russa uscì da “sette trimestri consecutivi di contrazioni” è discutibile attribuirne il merito al club Stolypin appena approvato; in ogni caso il “peggio è passato” si disse allora.

A tre anni di distanza le performance dell’economia russa non sembrano essere particolarmente esaltanti, ma il sorpasso dell’economia russa (in termini di PIL) su quella tedesca è ormai a portata di mano. Anche se la differenza di popolazione fra i due paesi è significativa (144 milioni contro 82), il dato - tenendo conto della catastrofe di partenza del periodo immediatamente post-sovietico - non è certo trascurabile.

L’aspetto su cui concentrare l’attenzione, però, per il successo davvero travolgente che la politica di Putin sembra aver conseguito, è piuttosto quello della presenza russa negli assetti geopolitici contemporanei. A partire, ovviamente, dal Medio Oriente dove ha letteralmente scalzato la presenza americana (anche nelle simpatie di turchi e israeliani) al braccio di ferro, da pari a pari, con Washington sul Venezuela per arrivare al teatro di confronto/scontro più importante, quello europeo.

E allora bisogna fare un passo indietro e scoprire che, secondo lo storico francese Le Roy, «Questo cambiamento radicale nell’attuale posizionamento della Russia si deve molto all’influenza del filosofo russo, Alexander Dugin, il quale lavora da numerosi anni per rompere l’influenza occidentale sulla Russia».

Si vedrà fra poco che politica estera, sovranità economica e proposta filosofica sono ben intrecciate fra loro.

Su Dugin ho scritto più volte negli anni scorsi, proprio perché la sua elaborazione politico-filosofica – la “Quarta Teoria Politica”, che si propone di superare non solo fascismo e comunismo storici, ma anche quel liberalismo uscito vincitore dalla seconda guerra mondiale – si va diffondendo in varie parti del mondo con una prevalenza proprio nei due capisaldi del mondo occidentale: l’America di Trump, Bannon e della Alt-right di Richard Spencer e nell’Europa dei movimenti sovranisti, anti-euro e postfascisti. In particolare nella Gran Bretagna della Brexit, nell’Italia della Lega, nella Francia di Marine Le Pen, nell’Austria del FPÖ (di cui è nota la spy-story che ha visto il leader del partito di estrema destra, Strache, coinvolto in un video dove prometteva favori politici in cambio di finanziamenti russi). Oltre che nei paesi del gruppo di Visegrad che ne sono, da tempo, i maggiori estimatori.

Le cose sono un po’ cambiate negli anni – Trump ha silurato Bannon (almeno apparentemente), la Brexit si è incagliata fino a far cadere il governo May (alimentando le voglie separatiste degli scozzesi), la reazione degli elettori europei ha rallentato decisamente, spostandosi verso l’ambientalismo verde, l’avanzata dei sovranisti, ma, sostanzialmente, la questione dell’anti-neoliberismo è rimasta la stessa ed è particolarmente visibile nella versione italiana delle ultime elezioni europee.

Le critiche “da sinistra” esistono, ma vivono (culturalmente) in ambienti di ricerca per gente dal palato raffinato, mentre si declinano (politicamente) solo in quegli ambienti sempre meno vitali, credibili e affidabili per l’elettorato, della sinistra radicale, sfinita da decenni di onanismo (politico) fuori controllo.

Al contrario quelle “da destra” prendono sempre più piede proprio nelle formazioni, come la Lega o Fratelli d’Italia, storicamente (da poco o da tanto) sovraniste, antiatlantiste, a loro modo anticapitaliste, ma soprattutto iper-tradizionaliste.

Ed è quest’ultimo richiamo al tradizionalismo a dare la cifra sia del successo elettorale delle formazioni sovraniste che crescono un po’ in tutto il continente, sia del vero portato neo-heideggeriano della proposta culturale di Alexandr Dugin: un mix di paleo-religiosità ortodossa fusa alla logica imperiale del bizantinismo moscovita, capace però di declinarsi in ogni singolo ambiente culturale adattandosi camaleonticamente ad esso. Ecco quindi il recupero del culto mariano da parte dei leghisti italiani e del culto preconciliare degli ultraconservatori cattolici, l’esaltazione della Vandea antirivoluzionaria in Francia, l’impronta neo-ottomana nella Turchia di Erdogan o quella biblica della deriva ultraortodossa nell’Israele di Netanyahu, per non parlare della teocrazia iraniana (a cui, forse, si deve la prima impronta nazional-tradizionalista dell’era moderna) e così via, rispolverando antiche tradizioni culturali e religiose sulla scia mistica di un Guenòn, il “sangue e suolo”, Blut und Boden, della Germania nazista e di Martin Heidegger, la visione spiritualisticamente aristocratica di un Evola.

Dall’anti-neoliberismo all’anti-modernità propria del filosofo tedesco, il passo per Dugin è così breve da risultare inesistente.

L’opposizione alla teoria economica su cui si fonda la globalizzazione diventa un tutt’uno con il contrasto con tutto ciò che suona come portato della modernità in termini di diritti individuali e di diritti civili: e quindi niente femminismo e diritti delle donne, niente aborto, niente unioni omosessuali, niente apertura alla modernizzazione dei riti religiosi, niente di tutto ciò che contrasta la tradizione (dove ognuno ha la sua) e niente, ovviamente, "mescolanze" di popoli, il leit motiv anti-migranti che ha investito con una narrazione delirante tutto il continente (soprattutto là dove di migranti ce ne sono pochissimi!).

Per arrivare alla fine a ipotizzare la fine dello “stato liberale” per “superare la modernità” con un ritorno a un preconizzato “fascismo immenso”, come lo ha definito Dugin stesso.

Un "fascismo" declinato nella forma post-fascista dello stato illiberale che appassiona Victor Orbàn e che i politologi hanno chiamato “democratura”; neologismo che fonde democrazia (di cui sono salvati gli aspetti formali come il voto popolare) e dittatura (che indica la realtà di un assetto istituzionale in cui sono stati eliminati via via tutti quei pesi e contrappesi che impediscono a un singolo leader o a un partito, uscito vincitore da libere elezioni, di fare tutto quello che gli pare senza alcun vincolo di legge). In altri termini sì, si vota, come nelle democrazie, poi però l'eletto fa quello che vuole proprio come un dittatore, con buona pace dei diritti delle opposizioni e delle minoranze.

I popoli europei sono stati chiamati a questo dunque, a difendere le democrazie liberali dalla proposta di democrature illiberali, e hanno dimostrato di averlo capito (tranne che in Italia).

Non c’è da stupirsi se la critica “da sinistra” al neoliberismo non abbia né scaldato gli animi né ottenuto alcun, seppur minimo, risultato. È una legittima, molto intrigante e per molti versi condivisibile battaglia politica di ampio respiro – contrassegnata da un a buona dose di aspirazioni utopistiche - che non si propone di attaccare, per demolirli, i temi fondamentali delle democrazie liberali, ma di svilupparne gli aspetti più umani e meno utilitaristici. Tuttavia la scarsa affidabilità delle sinistre radicali occidentali e l’impellente necessità di difendere quanto resta delle democrazie liberali ne impediscono ricadute efficaci sul piano immediatamente politico, mentre la critica “da destra” ha vita facile proponendo un salto all’indietro di secoli per uno psicopatologico ritorno allo stato precedente (precedente nientemeno i tre termini della rivoluzione francese: LibertéÉgalité,Fraternité).

La critica “da sinistra” al neoliberismo ha sbagliato quindi tempi e modi nel tentare di porsi come obiettivo immediatamente politico, per farsi battaglia elettorale da condivisibilissima battaglia culturale quale è, senza averne in realtà le forze.

E, soprattutto, non avendo saputo interpretare la realtà dell'onda reazionaria (e anti-neoliberista) contemporanea che era in arrivo, non avendone mai affrontato seriamente le basi ideologiche, né la tempistica necessaria per lo scontro in atto.

Gli elettori democratici invece hanno capito perfettamente qual era la posta in gioco e in Europa – purtroppo non molto in Italia – hanno saputo rispondere.

Prima si combatte la battaglia in difesa della democrazia e dei diritti delle persone conquistati con tanta fatica, costruendo fronti ampi di resistenza - a frittata fatta Nicola Fratoianni della Sinistra la propone oggi (sic!) in un'intervista al Manifesto - poi casomai si discute del sistema economico per sviscerare le componenti più devastanti dell'economia di mercato senza regole e per favorire un rilancio di ipotesi socialdemocratiche rielaborate quanto meglio si ritiene.

Se si rovesciano tempi e modalità si finisce ineluttabilmente nel cantuccio dell’irrilevanza, insieme a quei partitini dell’estrema sinistra che ormai nessuno, nemmeno il loro zoccolo duro tradizionale, prende più in considerazione.

 

 

 

 

 

 

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