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La costruzione dell’immagine femminile: la donna in India

Parlare della donna in India significa imbarcarsi in aspetti talmente contrastanti tra di loro che farsi un’idea più o meno esauriente per ognuno dipende, a mio avviso, dal contesto culturale al quale ciascun ricercatore si è collocato.

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Il leader del DMK abusa di un ragazzo dalit per essere entrato nel tempio del Tamil Nadu. Fonte: The Quint world

In linea generale e quindi molto approssimativa, tutti vedono nell’India la culla della spiritualità. Questo vale sia per il normale turista, fornito solo di notizie “da agenzia di viaggio” e quindi assolutamente prive di qualsiasi valore culturale, sia per quelli che sorridono ad una spiritualità a buon mercato molto più vicina alle esigenze della moda, che a una radicale scelta di vita.

La situazione è abbastanza simile per coloro che, con interesse, si dedicano allo studio di questa cultura molto spesso per esigenze di associazione ad attività psico-fisiche orientali (vedi lo Yoga ecc.) le quali prima o poi sfociano in atteggiamenti spiritualistici, dando l’idea che tale cultura diversa dalla nostra possa riscattare la società occidentale, oramai corrotta.

Non sorprende, quindi, che la donna in India sia spesso descritta come avente due aspetti nettamente contrastanti. La prima facciata è quella della serena madre primordiale, la Devi cioè la Grande Madre, la Shakti ossia l’energia basilare dell’Universo e la Prakriti, la Natura primordiale; in sostanza una delicata dispensatrice di benedizioni, la quale uccide anche i demoni.
L’altra è quella della donna domestica, dietro l’uomo dal quale si aspetta nutrimento, salute, educazione e tutti gli altri diritti, nella vita reale.
L’alto onore dato alla castità femminile si ritrova nei testi antichi e classici; questo valore fondamentale si cristallizzò in tutto il subcontinente. La virtù e la lucentezza superavano la naturale intelligenza femminile, ma c’erano numerose ambiguità, poiché quei testi erano composti da più autori maschi, separati da secoli di produzione letteraria e religiosa.
In sostanza, dietro questa colorata essenzializzazione della donna indiana, si trova la complessa realtà di miriadi di esseri femminili in un mare di valori che si alleano sia con l’auto sacrificio, come nella usanza della Sati – l’immolazione della donna vedova nella pira funebre del marito, in vigore fino a qualche secolo fa – sia con le moderne femministe sotto la veste della Shakti, che le vittime della religione, del genere e delle ineguaglianze di casta.

Tali incongruenze, che rendono ancora più complicata la comprensione di una cultura tanto lontana da noi per la sua base filosofica e religiosa e al tempo stesso vicina a noi per merito della moda, del turismo e della voglia di evasione hanno una radice: il luogo comune della perenne spiritualità dell’India.
Sacralizzare il secolare è stato sempre il tentativo di tutte le religioni mondiali e la “spiritualità” indiana, in questo, sembra particolarmente adatta a suscitare sia fervente entusiasmo, che violenta antipatia.
Raramente essa genera un atteggiamento che cerchi di presentarla e valutarla con freddezza e calma, senza emozioni positive e negative.

Tra le idee che sono considerate – anche se erroneamente – fatti indubitabili della cultura indiana, una di queste è la scontata spiritualità o, per dirla con la sua giusta accezione, la Bhakti.
Chi non ripete a pappagallo che la filosofia indiana è spirituale?
Innanzi tutto dovremmo porci la domanda sul significato di “spiritualità”
Il termine, nel contesto ontologico, significa che la natura della realtà ultima è ritenuta essere uguale, o simile a quella della mente e dello spirito.

Certamente è vero che la maggior parte delle scuole filosofiche indiane riconosca la realtà ultima dello spirito in qualche forma, ma riconosce anche la realtà ultima della materia, in qualche forma.
Il materialismo, quindi è stata una componente importante dell’antica cultura dell’India. Naturalmente essendo questa, in maniera assoluta, maschilista oltre che appannaggio e rendita esclusiva del dominio bramanico (sacerdotale) tutte le altre vedute che collocavano la vita dell’uomo e il suo destino in una visione differente da quella sottoposta alla religione dominante, ricevevano l’ostracismo e un duro boicottaggio.

Alcuni antichi sistemi filosofici non religiosi come il Jainismo (coevo del Buddhismo), il Vaisheshika (una sorta di filosofia atomista) e il Samkhya (l’enumerazione dei componenti dell’universo) per non parlare dei Lokayata (materialisti atei) concordano su questa visione materialista della vita.
In questo pensiero c’è un’enfasi sulla intellettualità che, generalmente, sembra essere perduta nella emotività anti intellettuale, la quale è così spesso associata alla Bhakti, ovvero alla corrente devozionale.
Esiste un elemento intellettuale all’interno della devozione, o non è questo un controsenso? In fin dei conti, in tutte le tradizioni del mondo i miti, per poter essere comprensibili, sono sempre stati travestiti da fatti.

Prendiamo ad esempio le Gopi, le pastorelle le quali, nel mito, adoravano e amavano, anche in senso carnale, il dio Krishna.
Dopo tutto, quando Krishna lasciò Vrindavan, la città dove viveva insieme alle sue devote, per andar a combattere la guerra in favore del Dharma, ossia la legge morale, queste neanche si sognarono di seguirlo!
Era forse perché le pastorelle, in effetti, non amavano Krishna, bensì erano innamorate della loro emozione suscitata dall’attrazione che provavano per lui?
Non è una questione di lana caprina, bensì una importante riflessione intellettuale, la quale è assente negli slanci devozionali come quello del tipico “spiritualismo indiano”, concetto creato ed esagerato da una visione occidentale e spacciato come unica visione della cultura dell’India.

Quindi, anche per affermare semplicemente qualcosa che è palesemente davanti al tuo naso, devi spesso discutere a lungo su ogni sorta di nozioni infondate e fuorvianti della visione spiritualista indiana, in quanto tale “visione” non è altro che il deposito intellettuale flottante di personaggi legati ad un ramo religioso e maschilista di quella tradizione.
Dati questi malintesi, i quali non sono altro che esempi di una banalità a volte disarmante, qualsiasi dichiarazione, anche semplice, su ciò che la cultura filosofica indiana effettivamente sia, corre il rischio di essere facilmente respinta come una forma di distorsione, motivata da incalzante materialismo.

Il fatto è che l’occidentale, interessato all’aspetto mistico dell’India – e in questa categoria includo tutte quelle persone che si sono imparentate con una informazione di massa, nata dapprima in sporadici viaggetti in India, alimentata da letture di manualetti che riempiono le bancarelle dei mercatini dell’usato e consolidata dalla figura di personaggi equivoci i quali impartiscono benedizioni a mantra a sempliciotti e creduloni, facendo loro cambiare il nome occidentale (quello che hanno dato loro mamma e papà) in un altro nome improbabile, lunghissimo, indecifrabile dalla maggior parte delle persone – questo occidentale ha finito per dar vita ad una realtà che costituisce oramai una buona fetta di mercato, attraverso la costruzione di altrettanti carismi a buon mercato.

Non ci vuole poi molto a individuarle queste persone.
Facebook, ad esempio, è oramai il luogo dove tutto impazza, quindi anche il trend del misticismo esotico, il quale si avvale di citazioni, quasi sempre decontestualizzate, di autori seri e famosi ma che originariamente, magari, intendevano riferirsi a tutt’altra cosa, oppure di ciarlatani che campano con il commercio del “vogliamoci bene”, della fratellanza, dell’anteposizione dei valori spirituali a quelli materiali, del namastè al posto del “buongiorno!”, solamente perché il primo significherebbe, nella nostra lingua, “saluto la divinità che è in te”.

A mio modesto parere, prima di lasciarsi coinvolgere da queste manifestazioni di semplice e pura emotività, priva di senso critico, istruzione o cultura sarebbe utile affrontare lo studio serio di una cultura che, geograficamente, non ci appartiene e cercar di vedere cosa essa effettivamente rappresenti; ovvero, se non si possiede il tempo o la voglia di fare tutto ciò, evitare comunque certe mascherate le quali non si risolvono, purtroppo, solo negli abiti orientaleggianti che si indossano.
In tutto ciò, chi ci rimette è solo la possibilità di intrattenere un dialogo serio, uno scambio costruttivo tra culture non solo distanti geograficamente, ma anche per la differente visione del mondo. Ed oggi, più che mai, il mondo ha bisogno di questo.

La maternità divina appare presto (circa 3000 a.C.) nei manufatti pre-ariani della civilizzazione Indù, ed è anche presente nel Veda scritturale sanscrito (1600-300 a.C.).
I generi letterari degli inni, della poesia epica e degli Shastra (scritture e manuali religiosi) nell’antica India facilitarono diverse tipologie di donne come divine, eroiche, materne, sante, vittimizzate, lussuriose o manipolative.
Nuovi testi di uomini d’élite redenti dalla sessualità delle donne mortali, esaltarono il “divino femminile”: la Devi.
Questa schizofrenia sulle donne divenne ancora più rigida nell'era classica (250 a.C. –500 a.C.) quando l'India assisteva a onde di immigrati e conquistatori.

Allo stesso tempo, le donne ordinarie erano tenute “al loro posto” domestico dagli autori misogini delle “Leggi di Manu”, un testo che probabilmente fu un semplice un manuale normativo (che, comunque, ancora oggi regola alcuni rapporti e comportamenti nella società attuale) ma che alcuni indù consideravano come il loro sacrosanto codice di legge.
La lunga esperienza di disuguaglianza di genere nel subcontinente impedisce, quindi, il suo licenziamento come semplice fantasia femminile.
Nonostante la persistenza di sacche locali di società aborigene e dravidiche matrilineari, i molti strati della società patriarcale tradizionale furono cementati, adottando valori sanscriti a causa della invasione straniera.
Questo avvenne secoli prima che l'Islam e il cristianesimo europeo infondessero le proprie caratteristiche patriarcali nella società indiana.

Tuttavia, le donne si ribellarono attraverso il non conformismo e, soprattutto, attraverso la letteratura religiosa.
Durante le tumultuose guerre coloniali, tra il XVII e il XIX secolo, si ritirarono ulteriormente in cortili privati e zenane, (gli appartamenti interni di un palazzo nei quali vivevano le donne di una famiglia), vincolate ulteriormente dal matrimonio minorile, dalla bigamia, dall’abuso e dall’immolazione forzata della vedova sulla pira funebre del marito (sati).
I commentari cristiani evangelici coloniali, basati sulle usanze misogine, alimentarono la compiacenza vittoriana sulla superiorità occidentale.
Nel 1829, il governatore generale Bentinck approvò una legge che vietava la sati, in parte influenzata dalla popolare “Storia dell'India britannica” di James Mill nel 1826.
Sebbene Mill non avesse mai visitato l’India, egli descrisse questa civiltà come “rude’’ e le sue donne come ‘generalmente degradate’. Concluse con franchezza: “Nulla può superare il disprezzo che gli indù intrattengono per le loro donne’’. Queste immagini iniziali dell’India lasciarono un segno indelebile sugli europei.

I riformatori indiani si sentirono abbattuti da queste verità, ma non poterono scartarle facilmente. Se studiosi orientalisti rivelarono l’origine comune delle lingue ariane, il Darwinismo catalogò i gruppi linguistici come “razze”.
Questa teoria razziale convalidò l'imperialismo europeo, per aver portato avanzamenti materiali ed essendo geneticamente il più adatto al dominio.
Tale corollario ritenne l’indiano “ariano” di casta alta come un “fratellastro marrone” degli europei; se Hitler, nella sua profonda ignoranza, avesse potuto conoscere questa consolidata visione dell’epoca a cui ci stiamo riferendo, forse il suo mito della “superiorità ariana” sarebbe crollato miseramente!


Allo stesso tempo, la gente dravidica di pelle più scura fu relegata ai ranghi dei “meno civilizzati” del subcontinente.

Le scoperte del XX secolo di sofisticate città pre-ariane a Mohenjo Daro e Harappa sul fiume Indo hanno costretto a rivisitare queste fantasie coloniali.
Mentre gli antropologi catalogarono assiduamente le molteplici matrilinee tribali e dravidiche indiane, oltre agli adoratori delle dee indigene, furono altrettanto sbrigativi sullo studio delle loro religioni e delle norme sessuali favorevoli alle donne.

Durante il Raj, cioè il dominio della Corona inglese sull’India (il termine Raj, che significa Re in hindi, fu preso in prestito dagli anglofoni) le donne indiane furono oggetto di contestazione maschile. Patriarchi sia occidentali, che orientali leggevano selettivamente i testi classici indiani per arrivare a considerazioni diametralmente opposte sulle donne indiane.
I cristiani evangelici esagerarono le condizioni abiette delle donne per giustificare la loro conversione. I riformatori indiani, invece, adoperarono le costrizioni abituali sulle donne per negoziare la loro posizione nel Raj, usandole come foraggio per la spinta nazionalista e migliorando, al tempo stesso, l’alfabetizzazione e la limitazione legale del matrimonio minorile e dell’usanza della sati.

La condizione femminile, quindi, era ancora una volta uno strumento diretto, o trasversale, per raggiungere obiettivi specifici nella sfera del patriarcato. Infatti, nazionalisti sia hindu che musulmani, mentre dimostravano di migliorare l’alfabetizzazione delle donne e la loro condizione sociale, al tempo stesso rafforzavano il patriarcato e le identità religiose.
Bal Gangadar Tilak, studioso, matematico, filosofo e ardente nazionalista accese il petardo del patriarcato indù militante quando attaccò con veemenza la femminista Pandita Ramabai per aver predicato apparentemente il cristianesimo, fondando un ente di beneficienza cristiano nei dintorni della città di Puna. Tilak si oppose, inoltre, a una legge che aumentava l'età femminile per il sesso coniugale.
Gli estremisti religiosi dell’Arya Samaj sostenevano l’educazione femminile, ma sfruttandola per la lotta contro i musulmani e la coscienza musulmana moderna era similmente divisiva quando si trattava di educazione e isolamento delle donne attraverso il velo (pardah).

La funzione strumentale della donna in India, dunque, è ben documentata sin dall’antichità e persiste anche nell’epoca attuale. C’è da considerare, comunque, che la donna indiana abbia identità multiple oltre ad essere femminile, e che spesso sia dissuasa dall'unirsi in una sorellanza generica a causa della sua forte fedeltà alla famiglia, alla casta, alla classe, alla nazione o alla religione.
Non tutte le donne indiane sono femministe ardenti; alcune si siedono sulla borderline, altre sono persino misogine!
Le donne hanno spesso accettato tranquillamente il vincolo nazionale o perché desiderano proteggere la famiglia anche sacrificando sé stesse, oppure perché sono relativamente impotenti in situazioni specifiche, ma anche perché nella situazione domestica, anche la povera nuora potrà in seguito diventare una suocera potente.

Comunque, per capire le donne, dobbiamo capire gli uomini; per comprendere il significato e le implicazioni, visibili e invisibili, della femminilità, occorre comprendere quelli della mascolinità e per storicizzare le donne bisognerebbe esplorare i flussi nel rapporto tra i sessi.
In altre parole, dovremmo capire come funziona il complicato processo di ‘genere’, essendo il ‘genere’ l’organizzazione sociale del rapporto tra i sessi.
Razza, casta, classe e genere determinano reciprocamente le forze e operano reciprocamente.

Si ritiene generalmente che gli interventi dello Stato coloniale britannico nel diritto di famiglia siano stati destinati principalmente alla liberazione delle donne indiane dalle barbariche usanze della sati, dagli infanticidi femminili e dallo stupro coniugale di spose infanti.
Si ritiene inoltre che il diritto alla proprietà delle donne sia un concetto occidentale, introdotto dagli inglesi durante la loro missione di modernizzazione. Ma è necessario ricordare che la legge romana e la common law inglese contenevano una serie di severe disposizioni a sfavore delle donne e sono state impregnate di tali pregiudizi.
Questi pregiudizi si sono insinuati in India attraverso la giurisprudenza anglosassone e hanno sovvertito i tradizionali sistemi giuridici che fornivano alle donne una certa misura di sicurezza economica.
I sistemi tradizionali sono stati, così, rimossi in strutture lineari, formali e rigorose, che hanno rafforzato il controllo patriarcale sulle donne e il loro diritto alla proprietà.

Gli interventi coloniali hanno promosso la costruzione di comunità religiose distinte e reciprocamente ostili di indù e musulmani, per essere governate dalle rispettive leggi personali, secondo il modello del loro diritto canonico.
La base del sistema giuridico erano le antiche scritture tradotte, però, con una mente occidentale.
I testi tradotti hanno, così, drasticamente cambiato il tono e la consistenza della legge indù consuetudinaria e scritturale e il diritto alla proprietà della donna indù ha subito un severo balzo indietro.
Nel processo di snellimento della società pluralistica indiana, diversi diritti consuetudinari delle donne sono stati schiacciati, in quanto non potevano incontrarsi con il requisito legale stabilito dai tribunali britannici per dimostrare un'usanza. Quindi, ironicamente, le comunità reciprocamente esclusive di indù e musulmani sono state costruite attraverso contenziosi basati sulle controversie di proprietà.

Un altro argomento che contribuisce enormemente alla costruzione dell’immagine femminile in India è quello della marcatura sociale di uno strato della popolazione nel persistente sistema castale: gli “intoccabili” o “fuori casta”. Queste definizioni appartengono all’antichità e furono create nella stesura del tessuto sociale da parte dei brahmani, che lo suddivisero in quattro caste, una organizzazione piramidale nel sistema religioso induista. Ne fu aggiunta una quinta, alla quale venivano assegnati i cosiddetti “intoccabili” o, appunto, i “fuori casta”.
Gli Intoccabili, denominati normalmente Dalit rappresentano ancora oggi il marchio più infamante dell’India contemporanea. Sette decenni dopo la sua abolizione, l’intoccabilità continua ad essere praticata in India.

La recente uccisione nella vigilia del giorno dell’Indipendenza, celebrata ogni anno al 15 Agosto, di un bambino Dalit picchiato da un suo insegnante per aver bevuto acqua da una pentola destinata a persone di casta superiore, cioè solo dagli insegnanti, mette a nudo l’estrema discriminazione e violenza che i Dalit ancora subiscono.
Le autorità di polizia, per questo caso, insistono sul fatto che non c’era nessun pregiudizio di casta nel crimine. Ciò non sorprende perché le autorità di polizia e le istituzioni giudiziarie sono prevalentemente di casta superiore.
I Dalit sono stati tradizionalmente incaricati di lavori umili come la lavorazione della pelle e il lavaggio manuale e sono stati percepiti, così, come sporchi; anche la loro presenza o il loro tocco sono considerati “inquinanti”.

La Costituzione indiana aveva abolito l’intoccabilità. La pratica che sottopone un Dalit a qualsiasi forma di esclusione o violenza sociale, fisica e politica è un crimine, ma le atrocità di casta, specialmente sotto il governo del nazionalista e fanatico religioso Narendra Modi, permettono che l’élite bramanica e gli indù di casta superiore continuino a dominare in India ancora oggi.

Questo, tuttavia, non è un incidente isolato. Secondo i dati del National Crime Records Bureau, tra il 2018 e il 2020 sono stati registrati oltre 130.000 crimini contro i Dalit.

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bambino Dalit picchiato (e deceduto) dai suoi insegnanti per aver bevuto acqua su una caraffa riservata alla casta alta. Foto: The Quint

Un altro caso di cronaca, abbastanza recente, di violenza contro le donne in India è quello avvenuto a settembre 2020.
Il 14 settembre una donna Dalit è stata torturata e presumibilmente violentata da quattro uomini di casta superiore nello stato dell’India settentrionale dell’Uttar Pradesh.
Il suo corpo è stato gravemente brutalizzato, la lingua era lacerata, gli arti fratturati e il midollo spinale danneggiato. La donna è deceduta, per le ferite riportate, in un ospedale di New Delhi due settimane dopo.
Tanto scioccante quanto la bestialità dello stupro è la riluttanza della polizia dello stato dell’Uttar Pradesh a eseguire il giusto processo.

La polizia ha accusato la donna di mentire, ha rifiutato di presentare al giudice una denuncia per stupro e ha ritardato il trasporto della vittima in ospedale per le cure. Un funzionario di polizia ha persino affermato che non era avvenuto alcuno stupro poiché non erano state trovate tracce di sperma sul corpo della vittima. Il corpo è stato rapidamente cremato nel cuore della notte dalla polizia.

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acido gettato sul viso di una donna indiana. Fonte: The Diplomat

La violenza contro le donne è pervasiva in India. Secondo dati recenti, sempre del National Crime Records Bureau, l’India ha registrato 88 casi di stupro ogni giorno nel 2019. Ma la maggior parte delle vittime preferisce rimanere in silenzio a causa dello stigma sociale legato allo stupro perché non è raro che sia la vittima ad essere incolpata, o che il suo carattere venga calunniato.

Le donne Dalit che formano la maggior parte dei raccoglitori di stracci e rottami di ferro e vetro sono sparse nelle principali città del paese. Questa raccolta provoca ferite sociali, psicologiche e fisiche. I contraenti e i rivenditori all’ingrosso nel “business di rottami” le imbrogliano nel pesare il materiale, pagando di meno alla fase finale del riciclo.
Naturalmente, oltre a questo sfruttamento materiale, le donne Dalit soffrono di lesioni psicologiche, che lasciano cicatrici permanenti sul cuore, sulla mente e sul corpo.

Quali sono queste cicatrici e lesioni sociali che le donne Dalit sopportano mentre raccolgono la spazzatura? Questi includono le umiliazioni sociali lanciate su di loro dalla polizia e dalle donne e uomini della classe media. Inoltre, queste donne sono sospettate di essere potenziali ladri.
Non si distinguono dagli animali randagi come cani e bovini e maiali che si nutrono anche dello stesso mucchio di rifiuti.
Infine, e cosa più importante, la raccolta degli stracci e dei rottami pregiudica tutte le eventuali prospettive perché una volta nel settore della spazzatura saranno attaccate ad esso per tutta la vita. Non potranno più trovare lavoro altrove anche se decidessero di prenderne uno.

È interessante notare che le famiglie di casta superiore non impiegano donne Dalit che possiedono un background di raccolta di rifiuti. Sostengono che la raccolta rafforza il loro grado di inquinamento e quindi non possono essere impiegate nel settore domestico.
È in questo senso che le donne Dalit diventano socialmente invisibili.

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acido gettato sul viso di una donna indiana. Fonte: The Diplomat

A conclusione di questa chiacchierata mi viene spontanea una provocazione: accanto alle immagini della Devi cioè la Grande Madre, della Shakti ossia l’energia basilare dell’Universo e della Prakriti, la Natura primordiale, tutte ingioiellate e vestite di seta, delicate dispensatrici di benedizioni che gli indù ortodossi tengono appese alle loro pareti casalinghe, accosterei quella di una donna Dalit in mezzo a un campo di rifiuti, con gli abiti stracciati, il viso deturpato da maltrattamenti di qualche appartenente alla casta superiore e poi chiederei loro dove trovano la continuità culturale e religiosa alla quale tanto orgogliosamente tengono, specialmente nell’India attuale. Ipocrisia.

(Questo contenuto può essere ascoltato in formato Audio Podcast su Eudemonia.blog)

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