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La Luna nel ’69 ed i nostri ricordi

Forse è un po’ patetico, ma quel giorno dello sbarco sulla Luna mi porta alla mente il film della storia di questo paese...

<< Vieni Davide, vieni qui, guarda… il primo uomo sulla Luna, siamo arrivati sulla Luna. >>

La figura grande e voluminosa di mia madre stava appollaiata sull’angolo estremo della poltrona, tutta protesa verso il televisore, anch’esso enorme, in bianco e nero, dove una voce raccontava istante per istante i movimenti ed i gesti di quegli astronauti che, dentro gigantesche tute bianche e senza faccia, si muovevano goffamente, in un tempo lento, lentissimo, che a me appariva così noioso.

In sottofondo voci incomprensibili, in una lingua sconosciuta; immagini piuttosto sfocate ma dalla posa e dal volto di mia madre traspariva una emozione che le faceva luccicare gli occhi ed ogni cosa era immobile; io stesso lo ero percependo uno stato di eccitazione e di attesa che cresceva sino a quando quel piede si pose: dalla televisione uscirono come delle urla e mia madre mi strinse a sé.

Qualche anno dopo correvo con la bicicletta in mezzo alla strada e percorrevo con un bel po’ di fatica la salita che conduceva alla sopraelevata, quella rotonda sopra la Stazione Dora di Torino; l’avevo vista costruire abitando nei pressi, al nono piano di un palazzo a lato, altezza che mi permetteva di osservare il mondo da un punto di vista particolare. Era l’anno dell’austerity: la domenica le auto non circolavano e si andava a piedi. Il quartiere, le strade, la sopraelevata, erano il mio territorio di esplorazione. Il primo sintomo di una delle tante crisi dopo gli anni del boom economico che avrebbero cambiato le nostre vite.

I nostri genitori erano figli della guerra, cresciuti tra sofferenze, limitazioni, e tutto ciò che successe negli anni ’60 faceva sperare loro in un futuro radioso.

Noi nati negli anni ’60 siamo cresciuti con il mito dell’anno 2000. Il nuovo millennio nel quale saremmo entrati come adulti e dopo lo sbarco sulla Luna eravamo pronti a credere che la nuova era ci avrebbe già visto viaggiare nello spazio, molti problemi sarebbero stati risolti, la povertà del mondo debellata, le malattie quasi scomparse; ci veniva proposta una fede in un futuro ricco e radioso.

Poi vennero gli anni della maturità, dell’impegno politico, del terrorismo, del pentapartito, di tangentopoli e della caduta del muro di Berlino e giunto il 2000 di quel futuro radioso non rimane traccia. Così abbiamo dovuto prendere duramente coscienza di un paese scivolato verso l’abbandono di se stesso, privo di fiducia nelle proprie possibilità, all’interno di un mondo che vive adesso la più dura crisi di sistema ed è governato da persone che non hanno più capacità di progettare il futuro, né di gestire il presente.

Eppure riusciamo, almeno alcuni di noi, a conservare i valori del buono e del giusto, perché i figli della guerra e i nonni ci hanno raccontato le loro storie e, credo senza saperlo, ci hanno lasciato la fiducia nel cambiamento, la voglia di essere protagonisti e di immaginare altri futuri: a volte così, semplicemente con un abbraccio.

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