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 Home page > Tribuna Libera > La Cina e i passaporti mai rinnovati al popolo tibetano

La Cina e i passaporti mai rinnovati al popolo tibetano

Il governo cinese, attraverso quella che sembra essere una subdola forma di controllo, dalla primavera scorsa non rilascia nuovi passaporti ai tibetani e non restituisce quelli che un anno fa aveva confiscato, adducendo come giustificazione la necessità di rinnovare i documenti in nuove versioni elettroniche.

La conseguenza è l'impossibilità per il popolo tibetano di effettuare spostamenti internazionali, specialmente nei Paesi, come l'India e il Nepal, che rappresentano aree focali per la spiritualità buddhista, e ospitano sedi di vitale importanza per i movimenti politici in difesa dei diritti della Regione Autonoma del Tibet, facente parte della Repubblica Popolare Cinese dal 1950. La mancanza del documento d'identità rende difficoltosi anche i movimenti interni alla Cina.

Le prime confische erano avvenute nel dicembre 2011, quando alcuni tibetani, di ritorno da un viaggio tra Nepal e India per presenziare a un incontro tenuto dal Dalai Lama, furono condannati a due mesi di detenzione e a un programma rieducativo, colpevoli di aver fatto parte di riunioni buddhiste (le politiche cinesi effettuano dure repressioni dei culti religiosi). All'arresto era seguito il ritiro del passaporto. Col pretesto del rinnovo, sembra che ora la revoca sia stata estesa a tutti i residenti in territorio tibetano, come dichiara Robert Bartnett, direttore dell'Istituto di Studi Tibetani della Columbia University, intervistato dal The Atlantic.

Il Professore spiega che il governo cinese ha poi promulgato un nuovo decreto che obbliga qualunque tibetano, al momento della richiesta di un nuovo passaporto, a sottoscrivere una dichiarazione che garantisce di non avere intenzione di compiere azioni, all'estero, che possano minacciare la sicurezza nazionale della Cina, e al ritorno lo costringe a sottoporsi a un'intervista della polizia di Pechino per verificare che l'accordo sia stato rispettato.

Nel novembre 2012, lo scrittore cinese Wang Lixiong scrisse un articolo sul New York Times per spiegare cosa fosse accaduto di recente a sua moglie, Woeser, poetessa tibetana, che qualche settimana prima si era vista recapitare da parte del governo centrale la richiesta di lasciare Pechino, sua città di residenza, in occasione del decennale dell'elezione di alcuni leader del nuovo partito, in quanto per il Partito Comunista Cinese i tibetani (insieme alle popolazioni Uighur dell'ovest musulmano) sono frange pericolose della popolazione.



Inoltre, per aver scritto versi di protesta, lamentando la sorte avversa del popolo tibetano, la donna è stata inserita nella lista nera del partito, bandita dagli avvenimenti pubblici, privata del lavoro e del passaporto, infine costretta a rientrare in Tibet.

Il governo cinese è tristemente noto per le persecuzioni delle sue minoranze, soprattutto religiose. Le autorità costringono i monasteri ad esporre le foto di Mao Tse-Tung, del presidente Hu Jintao, e a issare la bandiera cinese. Come denunciato da Lobsang Tsultrim, un giovane monaco ventunenne del monastero Kirti situato nella regione di Ngaba, provincia del Sichuan (teatro di violente repressioni dal 2008)i praticanti di un credo religioso che rifiutino una collaborazione con le politiche statali vengono arrestati (nel caso di ministri del culto, la prassi è lo sfratto dalle strutture in cui risiedono).



 

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