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L’unità spezzata

Per uccidere un uomo non serve toglierli la vita, basta sopprimergli il lavoro. Sono parole sagge e forti, pronunciate da un valoroso giornalista, il quale nonostante abbia dato un forte peso al bagaglio culturale italiano, risultando alla lunga poi scomodo l potere di turno, viene bruscamente disarcionato e lasciato alla sua triste fine.

Prendendo in considerazione queste parole, si evince lo stretto legame tra l’uomo e la dignità che lo caratterizza. Dignità che trova forma in mille modi in cui l’uomo stesso va ad esprimersi, a livello individuale e collettivo. Il lavoro è quindi l’elemento interpretativo che in entrambe le dimensioni sopra menzionate, riesce a dare un senso alla vita. Ne erano convinti i Padri Costituenti, i quali hanno inserito il “diritto al lavoro” all’apice della gerarchia delle fonti del diritto.

Per capire bene in che modo possa trovare spazi positivi il diritto al lavoro, bisogna un attimo fare mente locale in che tipo di società esso va ad inserirsi. Il distinguo è dettato da un duplice modello: società orizzontale e società verticale.

Il primo esempio di società, quello ispirato dalla Costituzione, mette al centro l’uomo e le sue idee. L’uomo deve essere se stesso, e attraverso le conoscenze man mano acquisite, deve saper interagire apportando il proprio sapere per il soddisfacimento sia dei propri bisogni individuali che dell’interesse collettivo. Questo tipo di società comporta che ognuno deve essere in grado di usare la propria testa, maturando pensieri diversi da mettere a confronto, in quanto il confronto stesso è la linfa vitale di un sistema democratico. Una società orizzontale così strutturata lascia ampia libertà di azione a tutti, con molteplici possibilità di sbocchi occupazionali, le quali però sono strettamente legate anche ad altri diritti costituzionalmente riconosciuti, tra cui la libertà di opinione, cosa estremamente fondamentale per non perire in insopportabili disuguaglianze.

A questa tendenza orizzontale, se ne contrappone una di stampo verticale, in cui si profila una gerarchia per gradi, caratterizzata da un bieco rapporto tra il vertice e la base. E’ un po’ come una piramide, in cima alla quale trovi il sovrano che comanda, ed in basso il suddito esegue. Uno schema così strutturato, porta l’uomo stesso a svuotarsi della propria coscienza, ad ammantarsi sotto l’ombra di un pensiero unico a cui deve giurare fedeltà, e magari sperare che quel tipo di fedeltà possa poi trasformarsi in una sorta di contentino in grado di mitigare la sofferenza per la libertà perduta. A differenza di una società orizzontale, nessuno è messo in grado di operare autonomamente se contrasta con i voleri del capo, ma soprattutto, domina l’assenza di un confronto costruttivo, cosa terrificante se si hanno a cuore le sorti di una democrazia matura.

Per mettere in mostra questa differenza teorica, prendiamo in considerazione un aspetto pratico. Il Friuli nel 1976 e l’Irpinia nel 1980 vengono duramente colpiti dalla furia degli elementi che genera un disastro sismico dalle proporzioni catastrofiche. A distanza di tre decadi dall’evento, volendo fare un paragone su cosa sia effettivamente cambiato, ci si accorge subito che il paragone non regge, in quanto i modelli di società in cui la ricostruzione è avvenuta sono totalmente diversi. In Friuli, rimboccandosi le maniche, si è trovata la forza di ripartire seguendo un cammino di tipo orizzontale, in cui si è stati abili nel far riemergere un interesse collettivo che oggi coagula nella capacità di essere parte integrante alla formazione del Pil nazionale. L’Irpinia invece, si è sciolta in un disegno verticale, in cui la scarsa levatura culturale, la logica del posto fisso dietro una cruda quanto drammatica sudditanza politica, l’accentramento dell’interesse personale a detrimento di quello collettivo, a distanza di trent’anni, ci vede come protagonisti di un film in bianco e nero dove non si è capaci di sapere scindere l’attore maschile dall’attrice femminile. Da opportunità quale avrebbe dovuto essere il periodo post-sismico, ci ritroviamo con mille paesi ben ricostruiti ma vuoti, con una popolazione sempre più anziana, un tasso di disoccupazione sconfinato, ed un’emorragia di giovani che abbandonano sempre più una comunità povera per cercare di annettersi ad un sistema più forte. Questo divario abnorme è dettato non solo da una mentalità diversa, ma da un’impostazione culturale di fondo.

Da un lato, la ricchezza come elemento capace di garantire benessere collettivo e prospettive occupazionali, dall’altro il vassallaggio fatto di carota e bastone, dove i più fedeli vengono accontentati con un posticino, anche se poi il manto stradale per andare a lavoro è ricoperto di buche, e i servizi essenziali sono soltanto un miraggio. Lasciamo da parte le difficoltà economiche del momento che generano problemi anche alle zone più virtuose del Paese, ma a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, bisogna ancora una volta misurarsi con una nazione divisa in due: progresso contro preistoria. Non sono ammesse critiche di fondo, perché le opportunità l’Irpinia le ha avute, in termini di uomini e di risorse finanziare. Ma se la mente, culturalmente parlando, è vuota, nemmeno l’Onnipotente sarà mai in grado di risanare questo tipo di guasto. Resta soltanto da fare tristemente i conti con un’unità nazionale spezzata in due, e che difficilmente andrà a risanarsi.

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