Giovani, lavoro e meritocrazia. Partire sì, ma con una piccola certezza
Nascere e vivere in uno Stato in cui sei costretto quotidianamente a zittire la propria coscienza a fronte di un sistema ormai alla soglia del collasso, è veramente complicato, se non drammatico. L’Italia non sta vivendo soltanto un’alterazione di forma, ma sta affondando nei meandri della sostanza.
Non bisogna andare lontano o leggere la stampa estera per capire che il Belpaese del sole, del mare e della dieta mediterranea, sta colando a picco. Politica a parte, le cui gesta sono inenarrabili, è il vuoto culturale che spaventa; l’accettazione passiva dello status quo nonostante i problemi ci stiano rubando la dignità. In Francia ricordo che in occasione della paventata riforma delle pensioni, si bloccò un’intera nazione. In Italia invece si brontola, s’imbastiscono meeting, convegni, tavole rotonde, ma poi ci si addormenta sotto la speranza vuota del pensiero unico che ha obnubilato ad arte le coscienze, complice anche il monopolio dei media sapientemente manipolato.
Mentre l’etica è un lontano ricordo e l’antiregola premia sempre più i virtuosi, a pagare le spese di questa stagnazione deprimente e lugubre è la nuova generazione, quella che dovrebbe oggi garantire il futuro prossimo, ed invece è annientata dal precariato o costretta a darsela a gambe per non figurare come bambocciona e mammona. Considerando che nel 2010 hanno lasciato l’Italia ben 65000 persone tra i 25 e i 40 anni in cerca di un respiro oltreconfine, allora qualcosa non va. E’ come se una città tipo Savona sparisse nel nulla.
La mia storia non è poi diversa da quella di molti altri. Sono originario di un piccolo paese dell’Alta Irpinia, e come altri ragazzi, ho studiato fuorisede laureandomi in giurisprudenza. Quando scelsi la facoltà, non c’era ancora internet, ma l’impulso alla scelta avvenne sulla scorta di piccoli bignami ove l’attenzione si focalizzava per il 70% sugli sbocchi occupazionali, i quali per quanto mi riguardava erano infiniti. Dopo immensi sacrifici da parte mia e della mia famiglia, raggiunto il traguardo accademico, inizio presto ad accorgermi di aver fatto la scelta sbagliata. L’arte forense è immersa nella logica della casta e del nepotismo (a meno che non vuoi imparare ad usare a menadito il fotocopiatore 10 ore al giorno gratuitamente); quella notarile lascio a voi le considerazioni, indi per cui ho optato per la soluzione privata e per diversi concorsi. La prima non è poi diversa dalla seconda, perché a parte le menti brillantissime (soffrono anche quelle), se sei nella media, la scelta del cv non cade certo sulle tue skills (anche come stagista). Sul fronte concorsuale, registro soltanto una gran quantità di danaro spesa in libri, viaggi, studio, preparazione atletica (concorsi nelle forze armate) e mi trovo con un pugno di mosche in mano, intriso di amarezza e delusione, per le mille storture in cui i miei sensi si sono immersi.
In Italia chiedere lavoro è come chiedere l’elemosina, e se anche riesci ad ottenerlo, o è a tempo come una cambiale, oppure dovrai riscattare per tutta la vita il favore ricevuto (anche se guadagni 600 euro in una città come Milano, ove l’affitto di una camera singola è pari allo stipendio e sei costretto a chiedere suffragio alla famiglia, per figurare come il precario-lavoratore dei tempi moderni che manda in alto l’asticella della “crescita occupazionale”). Sinceramente questo modo di agire, fare e pensare, non lo sopporto più. Il merito è quasi inesistente e soprattutto non si capisce quale sia la logica che alimenta il mercato del lavoro. Accanto al mio cammino universitario, ho accostato la passione per la scrittura e piccoli lavori di natura amm.va presso l’ex impresa di famiglia. Quando ho provato ad affacciarmi anche al mondo del giornalismo, gli addetti ai lavori, con parole molto semplici e chiare, mi hanno fatto capire che ero di fronte ad un altro settore saturo e che l’unica via maestra sarebbe stata l’estero. Fino a qualche anno fa non pensavo all’estero come soluzione ai miei problemi occupazionali, ma nel tempo, dopo aver incassato una delusione dietro l’altra, ho iniziato a caldeggiare l’idea di trasferirmi seriamente oltreconfine per un’esperienza di lavoro e chissà, anche per rimanerci definitivamente, chi può dirlo. Lo studio della lingua inglese occupa buona parte del mio tempo, mentre internet permette di creare un network di contatti, anche se mi sono accorto che la mole di informazioni che la rete snocciola, spesso serve soltanto ad aumentare confusione. Ascoltare l’esperienza altrui può essere positivo e negativo allo stesso tempo, in quanto la soggettività in un tipo di scelta del genere è fondamentale. Mi affascina molto l’Asia, ma non disdegnerei altri luoghi ove poter trovare lavoro.
Partire all’avventura, senza meta, senza un punto di riferimento è durissima e controproducente. Anche perché in alcuni posti, il tempo di permanenza senza lavoro è davvero stringente. Per questo motivo sto cercando di trovare qualche contatto giusto, ma la concorrenza forte e spietata non aiuta di certo. Non chiedo la luna, sono consapevole che fuori casa bisogna riazzerarsi e ripartire, e non mi spaventerebbe inizialmente un lavoro non del tutto qualificato se so che la costanza e l’impegno gravitano in una dimensione meritocratica. Sono anche conscio del fatto che non potrò andare avanti all’infinito nel coltivare la speranza di trovare lavoro dall’Italia, però quantomeno ci debbo provare ancora un po’. Partire è un po’ come morire. Questa frase l’ho letta da più parti. Tuttavia se non si tenta ad andare leggermente oltre i propri limiti, le proprie paure ed insicurezze, si rischia davvero di vivere con enormi rimpianti. La partenza non deve mai essere considerata alla stregua di una fuga, bensì come un’opportunità per poter dare a se stessi una veste nuova in termini di crescita umana e professionale.
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