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L’Ucraina e il pacifismo di Rovelli

Non guardo i talk show da anni. Per non arrecare danni al mio fegato, essenzialmente. Poi, ogni tanto, mi imbatto in interventi di questo o quel commentatore condiviso sui social o di cui si parla in qualche articolo di giornale. Allora guardo quel singolo intervento (risparmiandomi le eventuali risse verbali che ne seguono) per capire meglio il pensiero altrui.

Oggi è la volta di un intervento di Carlo Rovelli in una trasmissione che non conoscevo ("Le parole", condotta da Gramellini su Rai3).

Un intervento bello, pacato, ragionevole. Anche emozionante, ma che mi ha lasciato l'impressione di essere stato in qualche misura manipolato. Mi spiego.

Rovelli si attiene alla logica della mediazione (facilitato dal fatto che il conduttore gli ha chiesto di parlare di “pace”, come la si persegue, come la si può ottenere, e non, ad esempio, di "chi ha ragione?").

E come ogni mediatore sa, perché la mediazione porti a un risultato positivo (la composizione, e quindi la cessazione di uno stato di ostilità in atto) bisogna perseguire alcune norme di comportamento. La prima di tutte è, ovviamente, far calare la tensione, evitare di alzare i toni, “gettare acqua sul fuoco, anziché benzina”.

Per arrivare quindi a individuare, passo dopo passo, il punto di un possibile compromesso: il punto in cui convergono e si conciliano gli interessi di entrambi i contendenti. Che costituisce il punto d’arrivo di un processo in cui i contendenti, cedendo ognuno qualcosa del suo punto di vista di partenza (abbandonando quindi i suoi proclami di guerra), arrivano sostanzialmente a capire che proseguire nel conflitto è molto più costoso che non cessarlo. Non sto parlando solo di economia, ma di tutto l’insieme dei costi che un conflitto comporta, primi fra tutti quelli umani.

È il punto e il momento in cui entrambi possono tornare a casa cantando vittoria (o quantomeno entrambi convinti davvero di non essere stato sconfitti) e che porta alla sottoscrizione di un trattato di pace. La pace che, ovviamente, tutti vogliamo. Diversamente il lascito di rabbia inespressa o mal digerita sarà foriera di futuri conflitti.

Sono ottime parole, dal momento che ognuno di noi odia la guerra, ha paura della guerra, è preoccupato per la guerra e vuole che la guerra finisca al più presto. Soprattutto che la guerra non si allarghi, diventando una catastrofe epocale.

Per questo Rovelli si appella ai valori della presunta nonviolenza cristiana (“non mandare armi”) e dell'illuminismo (“non combattere, ma dialogare”). Ben sapendo che né il mondo cristiano né quello della ragione illuminista, ha mai evitato di fare guerre. Casomai è vero il contrario.

Ma i "valori" sono altra cosa ed è giusto fare riferimento ad essi, anche se si devono usare parole concrete, non un’astrazione per quanto presentata in maniera così suadente.

Dove sta l’astrazione?

Essenzialmente nel fatto che, nella fattispecie del conflitto in corso, Rovelli non sa (se è onesto) o finge di non sapere (se non lo è tanto quanto sembra) quale sia stata l’intenzionalità russa nel progettare e poi iniziare questo conflitto.

Intenzionalità che si è palesata in due momenti, entrambi rivelati dalla stampa e quindi non così nascosti da ipotizzare che nessuno li conosca.

Nell’ordine sono stati: il proclama della vittoria pubblicato per errore, e subito ritirato, sul sito dell’agenzia di stampa russa Ria Novosti due giorni dopo l’inizio dell’invasione e poi dall’editoriale titolato “Cosa deve fare la Russia dell’Ucraina”, pubblicato il 3 aprile dalla stessa agenzia, a firma di Timofei Sergeitsev.

Nel primo (il fasullo - o quantomeno assai prematuro - proclama della vittoria) l'editorialista Petr Akopov scriveva:

l’Ucraina è tornata in Russia (...) un nuovo mondo sta nascendo davanti ai nostri occhi. L’operazione militare russa in Ucraina ha inaugurato una nuova era. La Russia sta ripristinando la sua unità: la tragedia del 1991, questa terribile catastrofe nella nostra storia, la sua dislocazione innaturale, è stata superata (...) La Russia sta ripristinando la sua pienezza storica, riunendo il mondo russo, il popolo russo, nella sua interezza di Grandi Russi, Bielorussi e Piccoli Russi".

Nel secondo, anch'esso riportato da giornali italiani, si capisce perfettamente il senso di quello che la Russia si proponeva di fare invadendo l’Ucraina: occupare velocemente la capitale Kiev, uccidere (probabilmente) il presidente democraticamente eletto Zelensky, arrestare la classe dirigente del paese e sostituire il governo con un governo fantoccio fedele a Mosca. Poi procedere con l’epurazione degli elementi europeisti dalle istituzioni e fare dell’Ucraina un “paese fratello” in stile brezneviano. Questo sarebbe il senso vero del termine “denazificazione” usato a più riprese da Putin, che non costituisce, come potrebbe sembrare a noi, l’eliminazione dei fanatici neonazisti dell’ultradestra ucraina, che pure esistono, quanto piuttosto l’eradicazione dal paese di qualsiasi tendenza liberale, occidentalista, europeista.

Per poi procedere con la de-ucrainizzazione dell’Ucraina, fino alla ventilata sostituzione del nome stesso del paese con uno più consono alla realtà determinata sul campo dall’esercito russo: forse “Nuova Russia”, chissà. In ogni caso l'intendimento era quello di ripristinare la pienezza storica della Russia. L'Ucraina come stato sovrano doveva sparire.

Per un’operazione del genere sarebbero stati necessari 25 o 30 anni di occupazione – riassume Il Fatto Quotidiano – per rieducare almeno due generazioni di ucraini, come ha specificato l’ex generale, ora deputato, Vladimir Shamalov.

Questo programma può essere definito un radicale annullamento dell’identità nazionale ucraina.

La domanda qui può essere solo: quale tipo di mediazione si può fare su queste basi? Che cosa il governo ucraino avrebbe potuto cedere per trovare un compromesso che piacesse a Mosca? Se è in ballo l’eradicazione stessa dell’identità ucraina dell’Ucraina la risposta può essere una sola: nessuna mediazione è possibile su questa base. Nessun compromesso è nemmeno pensabile.

È realistico pensare che Carlo Rovelli, chiamato spesso a dire la sua sul conflitto in corso, non fosse a conoscenza di questo contenuto preciso della volontà russa con cui è stato dato inizio alla guerra? Forse sì, forse no. Più no che sì, però, lasciatemelo dire.

Oppure – è un'altra ipotesi – quando parla di pace e di compromessi possibili, parla solo della seconda fase della guerra in corso, quella successiva al fallimento del blitzkrieg russo, che ha portato alla ritirata dal fronte nord, che tutti sanno essere stato una sonora sconfitta, ben descritta nel dettaglio dagli analisti militari, ma che oggi qualcuno ci vuole presentare come una furbissima manovra di distrazione del nemico per poi colpirlo a sudest, nel punto di interesse vero per Mosca, il Donbass e la costa che da Odessa (o meglio dalla Transnistria, l’exclave russa a ovest del territorio ucraino) arriva fino al confine russo a est.

Se fosse così, se stava parlando solo della seconda fase, Rovelli avrebbe dovuto allora ammettere, prima di tutto, che la resistenza ucraina che ha provocato il ritiro russo dall’assedio di Kiev (e quindi il fallimento della prospettiva di fare dell’Ucraina uno stato de-ucrainizzato), dipende da due soli fattori: il riarmo ucraino successivo alla disfatta del 2014, quando l’esercito si sciolse come neve al sole lasciando la Crimea senza opporre alcuna resistenza e l'attuale fornitura di supporto militare dall'Occidente. Cioè il contrario di quanto va sostenendo ("non dare armi...").

In altre parole, per condividere l’assunto pacifista (pacifismo apparentemente vero, nel caso di Rovelli, tendente alla mediazione, non come quello di Alessandro Orsini che predica la resa pura e semplice dell’Ucraina fin dal primo giorno di guerra), si deve prima ammettere che la mediazione è possibile solo là dove i costi del conflitto diventano troppo alti rispetto ai vantaggi, veri o ipotizzabili, portati dal conflitto stesso.

Finché era ipotizzabile come obiettivo raggiungibile la de-ucrainizzazione dell’Ucraina, nessun compromesso era possibile e chiunque conosca, anche vagamente, i processi di mediazione sa che nel caso uno dei contendenti sia molto più forte dell’altro e stia materialmente attuando una politica di aggressione dell’altro, nessuna mediazione è proponibile. Al contrario il mediatore deve cercare prima di tutto di riequilibrare la situazione.

È quello che, in pratica, ha fatto l’Occidente: sanzionando la Russia (cercando cioè di indebolirla) e, contemporaneamente, fornendo armi al’Ucraina (cercando di rinforzarla).

Riequilibrando le forze – e non, come volevano molti pseudo-pacifisti contrari alla fornitura di armi all’Ucraina, indebolendo ulteriormente il più debole – si può legittimamente sperare di arrivare a una trattativa seria, a un cessate il fuoco e quindi, sperabilmente, a un vero accordo di pace. I rischi sono molti, ma l'unica alternativa in ballo è la resa dell'Ucraina.

Questo significa che tutto va bene? No, ovviamente. La guerra è ancora in corso, e si può immaginare che adesso stia per iniziare o sia già iniziata la fase due. L’attacco al sudest del paese per assicurare alla Crimea un collegamento terrestre con la madrepatria russa attraverso il Donbass.

E qui si sconta una seconda “perla” – questa volta una palese bugia o, a essere generosi, una argomentazione pasticciata – nel discorso di Rovelli: «c’era una guerra civile in Ucraina – ha sostenuto - prima dell’intervento russo».

Evidentemente lui qui si riferisce all’intervento del 2022, ma non può ignorare che la Russia era già intervenuta nel 2014, appropriandosi, in violazione di qualsiasi convenzione internazionale, della Crimea, e mandando i suoi “omini verdi”, soldati russi privi di contrassegni, a combattere nel Donbass. E che quindi non c’era solo una guerra civile in Ucraina, ma che c’era già, da otto anni, un intervento straniero nella spinosa questione interna di un altro stato sovrano. Non solo armi fornite a una parte mentre l’occidente le forniva all’altra, ma un intervento diretto della Russia sul territorio ucraino.

Si chiama invasione, ed era in atto da otto anni, non dal 24 febbraio.

L'invasione di oggi costituisce appunto il “buttare benzina sul fuoco” su un conflitto interno – generato da motivazioni politiche (filorussi vs. filoeuropeisti) ben più che da motivazioni etnico-linguistiche, come si sente dire spesso – conflitto che peraltro si stava assestando su un “cessate il fuoco” di fatto più che su una trattativa di pacificazione interna. Secondo i dati forniti dall’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani è evidente una sensibile riduzione del numero di civili coinvolti nel conflitto anno dopo anno. Il grafico è chiaro e incontrovertibile.

L’intensità degli scontri (che complessivamente, prima dell’ultimo intervento russo, sono costati la vita a circa 13-14mila persone tra militari ucraini, combattenti filorussi e civili) stava ormai scemando, vuoi per il progressivo allontanamento dei civili dall’area degli scontri più accesi, vuoi per l’assestarsi delle linee contrapposte attorno a una zona, fra le più minate al mondo, che taglia quasi a metà le due province “ribelli”.

L’attuale intervento russo, motivato da Putin con l’esigenza di “fermare il genocidio” della popolazione russofona del Donbass (dove “genocidio” è un termine del tutto irreale e il richiamo all'etnicità dello scontro alquanto forzata), ha palesemente buttato benzina, molta benzina, su un fuoco che poteva realisticamente spegnersi del tutto. Di più, per fermare un genocidio inventato ha dato il via a una serie di massacri reali in sequenza.

Ma delle responsabilità russe nell’ottica di mediazione di Rovelli, non c’è semplicemente traccia. I russi sono intervenuti, dice, dopo una guerra civile che già c’era da prima, a dimostrazione che gli ucraini non sono “d’accordo fra di loro”. E, anzi, l'altro (cioè la Russia) "va ascoltato perché, forse, anche l’altro qualche ragione ce l’ha”, afferma Rovelli. Perché “forse, mettere atomiche in Ucraina non era una buona idea”.

Poi si corregge – un vero mediatore non va mai a rivangare il passato, questo già lo fanno, abitualmente, le due parti in causa – ricordando che è inutile “cercare le colpe, l’importante è il dialogo. Fermare il massacro e per fermare il massacro ciascuno deve fare un passo indietro”.

Non è sorprendente? L’Ucraina non può evidentemente accettare l’idea di essere annullata per quello che è, uno stato sovrano, per diventare uno stato fantoccio, ma ciononostante “deve fare un passo indietro” per fermare il massacro. Passo indietro che consiste nell’eliminare dal suo territorio le atomiche puntate contro Mosca. Che però non ci sono mai state.

Il parallelo con la crisi dei missili a Cuba, accennato di sfuggita, contiene questo piccolo, ma non trascurabile elemento di fallacia. A Cuba i missili c'erano, stavano per essere installati, Kennedy si oppose. E la mediazione ebbe successo: i sovietici abbandonarono il progetto e in cambio gli Stati Uniti disinstallarono i loro missili piazzati in Turchia. Il compromesso possibile per eliminare il conflitto era a portata di mano e fu raggiunto.

Qui non si capisce quale possa essere il passo indietro che l’Ucraina debba fare se non quello di dirsi disposta a discutere della possibilità ipotetica di non mettere atomiche (occidentali) sul suo territorio in un futuro indeterminato. Un vago impegno.

In sintesi, si dovrebbe trattare di un accordo sulla neutralità del paese. Tutto qui? Sembrerebbe tutto qui, non si riesce a vedere altro.

Ma c'è un ma.

E cioè che Zelenski aveva proposto di discutere della possibile neutralità il giorno stesso dell’invasione. E l'ha ripetuto un mese dopo, dicendosi anche disponibile a un compromesso sul Donbass.

Questa sua apertura è servita a fermare l'invasione? No, lo sappiamo. Serve a fermare la seconda fase del conflitto? Non si direbbe.

Quindi di cosa parla Rovelli? Di quale mediazione? Di quale compromesso possibile? Di niente che l'Ucraina non abbia già offerto e che la Russia non abbia già rifiutato di ascoltare.

In sintesi, tante belle parole, suadenti e piacevoli da ascoltare, che dicono solo una cosa: cari ucraini, arrendetevi, non c'è altra soluzione. Visto che la Russia non crede alla vostra volontà di trattare c'è un unico passo indietro che potete fare: arrendervi.

Sono i valori dell'occidente cristiano e illuminista? Non so, forse. Di sicuro non mi sembrano i valori di un paese "nato dalla Resistenza".

 

 

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