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Il moralismo ipocrita di idioti e malandrini

Francamente, non mi interessano più che tanto i risultati cui giungerà lo scontro interno alla maggioranza (o ex che sia), pur se so bene che sono possibili soluzioni peggiori di quelle finora verificatesi. Sono ben conscio che si cerca di portare alla direzione del paese la banda più serva dello straniero, quella rappresentata dalla GFeID e dall’accozzaglia di “sinistra-centro-destra” (la “destra di Fini”) che è ad essa collaterale nel suo servilismo verso gli Stati Uniti. Si tratta oltretutto di un’accolita di gentucola non meno corrotta di quella perseguita da una magistratura a senso unico, ormai smascherata (per un cervello pensante) nel suo devastante ruolo di fazione. D’altronde, in uno schieramento come nell’altro si vedono solo persone del tutto incapaci di azione effettivamente politica; intrallazzano ed eseguono gli ordini di certi settori dell’establishment.

Il baratro in cui è caduto questo paese – il paese di Machiavelli, uno dei pochi grandi pensatori che abbiamo avuto in Italia, lasciando da parte i settori artistici e qualche scienziato di massimo livello – è quello d’essere da alcuni decenni preda di un’immoralità di fondo coperta però dal moralismo ipocrita che si diparte soprattutto dall’epoca berlingueriana. Purtroppo esso ha fatto scuola e influenzato una parte non indifferente della popolazione, in specie quella che continua ad occupare larghi settori della sfera pubblica (o finanziati dal pubblico) fra i quali vanno ricordati l’insegnamento e l’informazione. Insomma tutta la genia della “sinistra”, costituita da una massa di mentecatti guidata e influenzata da malandrini – vertici politici e buona parte del verminoso ceto intellettuale odierno, quello che riceve udienza presso i gruppi dominanti finanziatori – che con la morale in bocca hanno distrutto ogni tessuto di intelligenza politica.
 
Purtroppo, gli individui produttivi – tanti, ma ancora pochi in confronto ai “mangiapane a ufo”, ai dilapidatori e interessati solo alle chiacchiere – non hanno mai reagito a dovere; non hanno mai capito che bisogna rimboccarsi le maniche non solo per produrre e guadagnare (e spesso anche arricchirsi), ma anche per “invadere” la sfera pubblica onde espellervi non tanto i “fannulloni” quanto appunto i “moralisti”, i parolai solo dediti a scampoli di cultura libresca, gli autentici devastatori del tessuto sociale italiano che pure, in vaste sue zone, avrebbe buone potenzialità di concretezza produttiva e di autonomia rispetto a pesanti condizionamenti esterni.
 
L’altra grande disgrazia italiana è di non avere una “classe dirigente” nella sfera economica – in genere di tipo grande-imprenditoriale nella produzione e nella finanza – di carattere propulsivo, “schumpeteriano” (innovativo); essa è invece adusa al parassitismo, salvo poche e lodevoli eccezioni (e non solo nei settori “pubblici”; basti ricordare Adriano Olivetti), non a caso combattute e mal viste dalla maggioranza dei loro (dis)simili. Si tratta di una “classe” che ha accumulato grandi ricchezze, non sapendo però dirigere un bel nulla. E’ stata però in grado di impadronirsi dei media – sintomatica la vicenda del Corriere scippato, com’è ormai ben noto, a Rizzoli; e sempre con la connivenza della “giustizia” – per diffondere il suo “verbo” teso ad ingannare quella vasta schiera di produttori (non i soli lavoratori salariati), sui quali vive e prospera in qualità di brulichio di “mignatte”.
 
Il limite delle teorie di carattere economico, anche di quelle critiche del capitalismo, è di restare appunto entro l’ambito della sfera economica. Possono elogiare la capacità produttiva della “classe” capitalistica o mettere invece in luce l’origine dei suoi profitti in quanto plusvalore creato dal lavoro. Se ci sono situazioni di crisi, si va dall’ormai ridicola affermazione circa la prossima fine del capitalismo al gettare le colpe su sole disfunzioni legate a pratiche di soggetti, in cui si sarebbero allentati i vincoli dell’etica per la smania di guadagni eccessivi, che li avrebbe spinti a imbrogli e raggiri vari, ecc. Così blaterando, si rimane sempre al margine delle questioni che sono veramente rilevanti. La più decisiva, e ignorata, di tutte è che l’azione di un imprenditore (grande, medio o piccolo ha importanza solo per la portata delle sue azioni, i cui caratteri sono però similari) non è diversa da quella di qualsiasi individuo, in qualsiasi epoca storica conosciuta, alla ricerca del successo, del primato, di una vittoria sui competitori, e via dicendo. Vi è necessità di applicare opportune strategie, che non sono legate a lineari successioni di operazioni rette da principi soltanto relativi all’economicità; ad esempio quello del “minimo mezzo” o del “massimo risultato” (due lati della stessa medaglia). Qualsiasi strategia è, in senso lato, una politica, che investe ogni sfera dell’agire sociale.
 
Un grande imprenditore come Mattei – che fosse “pubblico” non ha la benché minima importanza, agiva come un qualsiasi altro imprenditore per il successo e la primazia della sua azienda – finanziava tutti i partiti, oliava le ruote dell’amministrazione pubblica, si serviva di una rete di amicizie, cercava di influenzare ambienti esteri di paesi vari, ecc. E, per tutto questo, gli servivano ingenti fondi, che certamente non iscriveva apertamente nelle varie partite di bilancio. Gli imbecilli parlerebbero di “corruzione”, di mancanza d’etica, di attività in contrasto con la “sana” competitività basata solo sui “costi e ricavi”, sulla qualità dei prodotti, sulle tecnologie innovative, ecc. Questo tipo di attività esiste, non può non esserci soprattutto quando si investe in un settore “non maturo”, in uno spazio (non solo mercantile) occupato da altri contendenti. La competizione, però, esige un’ampiezza inusitata di mezzi; e molti non riguardano esclusivamente la produzione, l’economia dei mercati, ma si allargano invece alla sfera politica come a quella ideologico-culturale. Normalmente, poi, bisogna avere – soprattutto se si è grandi imprese – una serie di rapporti con i “corpi speciali” dello Stato, i vari settori ministeriali e della sfera “pubblica” in genere.
 
In Italia, per una sua storia specifica, molti imprenditori hanno avuto un rapporto “pubblico” nell’attività che svolgevano; e sempre per ragioni storico-peculiari, essi hanno agito spesso in settori strategici, in genere “nuovi”, mentre quelli via via divenuti “maturi” erano occupati da un capitalismo “privato” di tipologia quasi sempre famigliare (ancora adesso, del resto). La divisione tra buoni e cattivi imprenditori non è affatto quella, ipocrita e falsa, tra chi segue i criteri di economicità (gli “stimoli” del mercato), cerca di vincere “lealmente” nella competizione in base a costi e prezzi (e qualità dei prodotti), ecc.; e chi invece sarebbe solo dedito ad opera di corruzione (magari di funzionari pubblici), alla adulterazione dei prodotti, alle frodi in commercio, agli imbrogli dei giochi finanziari, e via dicendo. Non dico che non ci sia anche questa divisione, ma è secondaria. La decisiva è un’altra.
 
Se dico che l’alta finanza e le grandi imprese “decotte” italiane sono rappresentate da parassiti, non voglio minimamente significare che esse “sfruttano” il lavoro (il plusvalore è fenomeno generale di una società capitalistica); nemmeno che sono dedite a speculazioni finanziarie, altro fenomeno ricorrente in ogni economia capitalistica. Tanto meno me la prendo con chi ha “fondi speciali” per le varie necessità della politica, quell’insieme di strategie di lotta che solo gli idioti e i malandrini del moralismo “di sinistra” (e oggi di quote della “destra”) continuano a considerare come “farina del diavolo”. Il problema decisivo è appunto di quale tipo di strategie si tratta. Premesso che è ancora una volta prerogativa degli idioti e malandrini di cui sopra il pensare (o far finta di pensare) che i gruppi dominanti, quando sono nel contempo realmente dirigenti, si dedichino agli interessi del popolo invece che ai propri, è fondamentale appurare se gli interessi particolari di dati gruppi comportino oppure no anche vantaggi collaterali per la maggioranza della popolazione di un dato paese. Qui “casca l’asino”.
 
I parassiti sono in realtà quei gruppi che, perseguendo i propri interessi particolari, danneggiano e compromettono quelli del complessivo sistema economico-sociale (nazionale) in cui sono fortemente inseriti (pur quando si parli di “multinazionali”). In linea generale, i parassiti non semplicemente assorbono una quota sproporzionata della ricchezza prodotta nei sistemi in cui hanno appunto decisivo insediamento; essi sono soprattutto ambienti (industrial-finanziari) che, per i loro interessi, sono legati a certi altri sistemi (paesi) predominanti in campo mondiale. Il loro parassitismo, nell’accezione che uso, è soprattutto questo ledere le potenzialità di sviluppo autonomo del proprio paese, consegnandolo alla subalternità rispetto ad altri. E’ quanto sta accadendo, dopo il crollo del mondo “socialistico, ai gruppi italiani della GFeID (grande finanza e industria “decotta”, cioè di passate stagioni dell’industrializzazione) che, basandosi su precise forze politiche del “tradimento nazionale”, stanno ledendo gli interessi del “sistema Italia” in quanto il perseguimento dei loro si può attuare solo legandosi, in rapporto di subalternità, ai progetti dei predominanti statunitensi in lotta per mantenere la loro posizione centrale nella fase in cui avanza il multipolarismo.
 
Non c’è una sola impresa – soprattutto grande e “multinazionale”; ma non solo questo tipo di imprese, sia chiaro, bensì tutte, con modalità diverse – che si atteggi nella competizione con puro riferimento ai “segnali del mercato”. Quest’ultimo è costantemente “sovradeterminato”, sovrastato, alterato e ridisegnato, deformato (o quale altro termine devo usare?), dall’azione strategica dei vertici imprenditoriali che non sono mai semplicemente aziendali poiché si rivolgono principalmente all’ambiente esterno; e quest’ultimo è pregno di azioni compiute nella sfera politica, in quella ideologico-culturale. La competizione nell’ambito mondiale, inoltre, s’intreccia con quella degli Stati; quindi comporta precisi collegamenti con gli organi “pubblici” della politica estera (diplomatica come d’aggressione, più o meno scoperta in senso bellico o invece soft, ambigua e aggirante).
 
L’azione detta giudiziaria non ha nulla a che vedere con la “giustizia”; si colpiscono e s’intralciano certe aziende e non altre o, quanto meno, assai più alcune di altre. Ancora una volta, la sedicente “giustizia” sposta il campo della lotta, anche quella combattuta nella sfera economica, dal suo ambito più proprio delle strategie (politiche) dell’impresa a quello dell’etica e della “correttezza” negli “affari”. Questo è il migliore sintomo di operazioni miranti a colpire le imprese più innovative e “fresche” in termini di strategia, ponendosi al servizio di quelle che non hanno più idee, quelle che vivono del parassitismo nel senso appena chiarito. In un certo senso, la campagna per la “giustizia”, ormai così anomala, segnala che le imprese da essa colpite sono le più meritorie in termini di potenzialità e autonomia del sistema economico nazionale, nella loro azione verso l’ambiente “esterno” mondiale. L’azione giudiziaria si svolge soprattutto quando quest’ultimo comincia a pendere verso il multipolarismo mentre la potenza prima centrale inizia a decadere (in senso relativo). La “giustizia”, in definitiva, è la foglia di fico che copre la vergogna antinazionale di date forze economiche del paese con al loro servizio i sicari politici che prendono ordini dalla suddetta potenza centrale.
 
Gli ultimi fatti riguardanti il nostro paese, devastato da parassiti del genere appena detto, sono di una evidenza solare per chi abbia un piccolo granello di sale in testa. Obama che sponsorizza la Fiat Auto tessendo gli elogi di Marchionne come salvatore della Chrysler; salvata invece dagli aiuti dati dagli stessi Usa alla nostra azienda per le sue maggiori possibilità di mascherare in modo “neutrale” il suo essere divenuta agente e “centro di raggruppamento” di agenti al loro servizio, in una fase storica in cui vacilla il loro predominio centrale. Sicuramente tale funzione di agente degli Stati Uniti non viene svolta solo in Italia, ma temo sia prevalente nel nostro paese. Si dimostra inoltre come sia stata una mossa tattica, solo in parte legata ad esigenze economiche e finanziarie, lo scorporo dell’Auto dal resto della Fiat. Mentre Obama inneggiava a Marchionne, John Elkann si recava al Quirinale e in altri ambienti dei “vertici” politici italiani per illustrare il progetto “Fabbrica Italia”.
 
Evidente è il complesso di manovre, presentate al pubblico in modo da apparire eccellenti per il paese, con cui la Fiat si vorrebbe porre nuovamente al centro della GFeID per svolgere il compito “parassitario” che è suo proprio in merito al tentativo di stringersi attorno ai predominanti statunitensi (e di stringere quindi il cappio al collo dell’Italia perseguendo questo scopo antinazionale, tipico del resto di altri momenti della storia della Fiat; si ricordi il “viaggio premio” di Gianni Agnelli negli Usa nel 1939, il ruolo quasi sicuramente giocato nei fatti del 25 luglio 1943, la funzione svolta nel dopoguerra per far fuori i “comunisti”, creare i sindacati “gialli”, favorire l’azione repressiva degli anni ’50, per poi flirtare con Lama e i sindacati negli anni ’70, svoltando ancora nel 1980 con la marcia dei 40.000 quadri; e si deve continuare?).
 
Simile azione va strettamente collegata alla rottura dei “finiani” nel Pdl, ai reiterati appelli a formare un esecutivo di cosiddetta “responsabilità nazionale” (mentre sarebbe invece di vergognosa sudditanza completa agli Usa), fregandosene dei verdetti elettorali quando non sono favorevoli: atteggiamento costante degli Usa e dei loro scherani europei in tutte le “rivoluzioni colorate” che, se falliscono nei loro fini di sovvertimento interno, è sempre per azioni “antidemocratiche” dei loro avversari (si tratti delle elezioni iraniane o di quelle palestinesi, in cui vinse Hamas, o di quelle recenti in Ucraina in cui ha rivinto Yanukovich, e via dicendo).
 
E’ da vent’anni o poco meno che questi mestatori non riescono a completare in Italia l’opera di “mani pulite” e della riunione sul panfilo Britannia. Adesso stanno tentando – con forze ancora più raffazzonate e incredibilmente prive di qualsiasi progetto: altro che “nazionale”, il loro unico compito è di eseguire supinamente gli ordini venuti da oltreatlantico! – il loro probabilmente ultimo tentativo. Proprio per questo sono pericolosi, mortali per le sorti del paese. Tanto più che i loro avversari non lo sono certo in modo netto, deciso e trasparente; e soprattutto non lo sono su questioni decisive per la nostra autonomia. Purtroppo, non esistono in Italia “anticorpi”, soprattutto con controllo dei “distaccamenti speciali in armi”, probabilmente indispensabili, data la situazione particolare del momento, per spezzare certe trame di gentaglia assimilabile alle “gang nella Chicago anni ‘20” (non ho sostenuto io per primo questa somiglianza, ma proprio “uno dei loro”!).
Per tornare a ciò che ha determinato questo mio intervento, è ora di finirla con il moralismo degli idioti e malandrini e con l’attacco a presunte corruzioni e alterazioni di una corretta competizione nel “libero” mercato. Tutti gli ostacoli messi sulla strada dei progetti Eni e, oggi, le inchieste giudiziarie sulla Finmeccanica – mai prima svolte quando questa azienda aveva pressoché esclusivi rapporti con gli Usa – appartengono all’iniziativa delle bande della GFeID e alle manovre politiche, patrocinate “molto in alto” e “ordinate” in ambienti stranieri, tese a condurci sotto pieno protettorato statunitense guastando fruttuosi rapporti verso “est” e verso “sud”, non semplicemente limitati all’import-export di prodotti cosiddetti “made in Italy”, che mai ci daranno un minimo di forza necessaria ad occupare un diverso, e maggiormente autonomo, posto nel consesso internazionale. La “moralità” – come la “democrazia” nelle “rivoluzioni colorate” – è a senso unico, serve ai predominanti stranieri e ai loro rappresentanti nel nostro paese per obbligarci ad una ancor maggiore dipendenza.
 
Intanto, cominciamo a dirlo alto e forte. Di poco (di nulla) sposteremo gli attuali infausti equilibri in questo disgraziato paese, ma almeno non rendiamoci complici dei “bravacci” del “Don Rodrigo” d’oltreoceano.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.112) 4 agosto 2010 15:22

    Scrivi molto bene ma secondo me sei rimasto un pò indietro.

    Le cosiddette "Economie mature" sono da tempo tutte molto simili, se non identiche.

    Il nostro problema non sono gli americani, è semplicemente la rapida propagazione della cultura scientifica a società meno decadenti della nostra, cioè con un etica più semplice e sostanzialmente ancora sana.

    Mi riferisco ai tre miliardi di nuovi lavoratori-risparmiatori del BRIC.

    Cristiano Fantinati 

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