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Il discorso del re: midollo post moderno

‘Il discorso del re’ è stato terminato nel gennaio 2010, in Italia è arrivato nelle sale nel gennaio 2011 (prima mondiale americana il 4 settembre 2010) e ora approda nel piccolo schermo sulla pay-tv di Sky (première il 1 gennaio 2012 con varie repliche per tutto il mese).

Il film è noto per essere stato pluripremiato oltre ai 4 noti Oscar (1 Golden Globe per ‘miglior attore in un film drammatico’, 7 Bafta, vincitore del premio del pubblico al Toronto International Film Festival e 5 British Indipendent Film Award 2010).

Ambientato in un contesto storico preciso, l’Inghilterra tra il 1925 e 1939 con la dichiarazione di guerra alla Germania, il film si rifà alla storia per dare quel contesto necessario a comprenderne gli innesti nel plot. Ma è un film storico nella misura in cui le fondamenta sono quelle precisate sopra, ci sono re, duchi, palazzi folle ma anche edifici e strade che fanno l’occhiolino a quel tempo.

In realtà è un film sul superamento delle proprie paure fisiche, sull’affrontare il passato tra apparenze e cicatrici nonché sul talento esercitato senza onorificenze ufficiali né riconoscimenti professionali. È un film sul vivere al limite, tra ricchezze vuote e povertà dignitose. È un film sulle anomalie fiere, sulle paure esposte, sulla fiducia oltre ciò che sembra.

Sono questi, in sostanza, gli ingredienti che ne rendono interessante il plot. Non basta l’incontro tra il mondo dei ‘reali’ e quello della ‘gente comune’, non basta la figura del non-medico a cui piace recitare (e si diletta nel tempo libero a farlo, credendo nel sogno senza prendersi troppo sul serio) ma che per vivere si occupa con empatia di chi ha disturbo della ‘parola’ (tecnicamente è la sfera dei logopedisti, ma il personaggio in questione non ha alcun titolo, ha esercitato sul campo, appreso per esperienza e non per teoria e riconoscimenti). E non basta nemmeno il non re costretto a fare il re per l'abdicare a tradimento del fratello maggiore (che non può rinunciare all’amata pluri divorziata e rinnegata dal mondo della corte inglese). Un re-non re con un ‘piccolo’ problemino tra il fisico e lo psicologico: soffre di balbuzie specialmente se sotto pressione come durante i rinomati ‘discorsi del re’.

Colin Firth (re Giorgio VI) lascia senza fiato, espressivo, intenso, credibile. Azzecca ogni pausa, ogni eccesso, ogni deformazione del volto. Anche Geoffrey Rush (Lionel Logue, il non logopedista) e Helena Bronham Carter (la moglie di re Giorgio VI) sono all’altezza, la Carter ha una particolare predilezione per i ruoli un po’ sopra le righe. Da Guy Pearce non ci si aspettava niente di meno e niente di più, il suo personaggio (re Edoardo VIII, il fratello abdicatore) ricalca i tratti del bello e dannato già mostrati con successo nella miniserie – straordinaria – della Hbo ‘Mildred Pierce’.

La sceneggiatura di David Seidler, prima di andare ‘in scena’ per la regia di Tom Hooper, è diventato un progetto teatrale sperimentale a testarne dialoghi e atmosfere. Un progetto articolato, insomma, i cui risultati sullo schermo sono indiscutibili (non in assoluto, ovviamente, ma valutando le pellicole affini per genere e approcci nonché l’attuale panorama cinematografico americano degli ultimi anni). E i dialoghi, in effetti, sono spesso vere perle a miscelare il comico e il drammatico, l’ironico e l’affaticato, l’imbarazzo e la leggerezza dell’assurdo.


Eppure la trama in senso stretto è semplice, a parte gli snodi storici, tutto è incentrato sul disturbo di quello che sarà re Giorgio VI, il figlio balbuziente e deriso dallo stesso padre-sovrano, la cui unica fortuna sembra essere il fatto di non essere il primogenito. E infatti, prima di lui al trono sale Edoardo VIII (Pearce, per l’appunto), dedito ai vizi, che non si cura delle esigenze del popolo piuttosto cura la propria immagine e i desideri dell’amata.

Il personaggio di Firth incarna evidentemente l’ideale del potenziale sovrano ‘buono’, è innegabile la necessità di introdurre e perseguire una sorta di ‘happy end’ poi rafforzato proprio dal finale tutto incentrato sul rapporto tra il sovrano e il suo non medico (nessun accenno alla guerra, gli scontri tra nazioni o le condizioni dell’Inghilterra, per intenderci, perché il punto non è mai stato nella Storia).

È dunque un ‘buono anomalo’, che al momento del dovere – nel suo caso quando deve parlare alla folla o al congresso o per radio – ‘fa cilecca’, tartaglia. Non gli mancano le nozioni per regnare, gli manca la voce ferma. Un dettaglio non da poco, per un monarca della prima metà del’900.

La vera ‘chicca’ in termini di risultato nella storia è il tratteggio del co-protagonista Logue, il non medico che cura i disturbi nell’articolare parole, tra lo psicologo e l’esperto motorio, un amico e una guida, un provocatore e un ascoltatore fidato. È Logue che rompe la routine delle tipiche narrazioni storiche, è il suo essere artista e uomo che cura senza alcun riconoscimento, è la sua essenza di talento empatico a guidarlo anche in territori che non gli sono noti ma nella natura umana trova spunti e forza per avvicinare i ‘malati’ e aiutarli senza terapie o esercizi convenzionali. È un personaggio post moderno, senza dubbio, forse un tantino troppo buono per gli standard degli artisti di oggi, ma innegabilmente contemporaneo.

L’idea di raccontare le fragilità, le paure, i demoni di un sovrano, di una di quelle figure che entrano nella Storia per integrità, immagine e rigori; non è un’idea originale. Ma in questo film gli svolgimenti espongono molto di più: un passato duro nonostante l’appartenenza alla famiglia reale, un contesto di confronto perdente col padre (che nel corso del film muore e libera così ogni scheggia remota e recente) e il fratello maggiore David (che si toglie di mezzo per aprire l’ultima parte del plot) fino al ‘fuck all’ finale quando non resta che essere ciò che è, il nuovo re.

Che tutto sia incentrato sul disturbo della voce di Firth come plot principale da cui si diramano le varie sotto trame (il re-padre che muore, il fratello maggiore e il suo vivere, il vivere nella casa popolare di Logue e il suo rapporto coi figli, la guerra che incombe…) può sembrare eccessivo. Non lo è nella misura in cui da quel ‘nocciolo’ il film vira di frequente concedendo abbastanza spazio alle sfilacciature attorno per non scatenare l’effetto claustrofobico da unica inquadratura portante.

Non ho apprezzato il finale smaccatamente happy a tutti i costi, ampiamente preannunciato comunque e tutto sommato necessario a dare quel sollievo che ormai si cerca (o meglio: che cerca lo ‘spettatore medio’, termine imbarazzane ma realistico se si ragiona per numeri e riscontri di pubblico) in un film costellato di battaglie (interiori e esteriori), scontri famigliari, disagi, dolori, ingiustizie e vittorie conclusive più o meno evidenti (nella misura in cui non necessariamente la vittoria deve essere alla ‘Pearl Harbor’, intendendo il film del 2001 diretto da Michael Bay).

Da vedere.

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