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Il Pdl solidarizza con Dell’Utri. Ma per fortuna ci sono i giovani

I vertici del Pdl difendono Dell’Utri. Ma i giovani di destra non ci stanno e si schierano dalla parte di Falcone e Borsellino.

Il Pdl solidarizza con Dell'Utri. Ma per fortuna ci sono i giovani

«La Corte d’appello di Palermo, con la riduzione della pena a sette anni nei confronti del senatore Marcello Dell’Utri, ha dimostrato di non avere avuto il coraggio di assolvere un innocente», ha dichiarato il deputato Pdl Amedeo Laboccetta, già indagato nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti a Napoli e legato con i vertici di una società del figlio del boss Gaetano Corallo (il mafioso con cui Dell’Utri venne sorpreso quando, nel 1983, la Polizia irruppe nella casa di un suo socio per arrestarlo). «Ora tutto il Pdl ha l’obbligo morale di fare quadrato attorno all’amico Marcello Dell’Utri». Detto, fatto. Tutti i vertici del Pdl fanno a gara di solidarietà per difendere il loro amico appena condannato a sette anni in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. A iniziare dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, certa che Dell’Utri «è una persona perbene». Come se già non fosse pregiudicato per frode fiscale e false fatturazioni, reati per cui lui stesso patteggiò la pena in Cassazione. La condanna per concorso esterno, secondo Italo Bocchino, «smonta il teorema tutto politico di un collegamento tra le stragi mafiose e la nascita di Forza Italia». Al coro in sostegno di Dell’Utri si uniscono anche i ministri Gianfranco Rotondi e Sandro Bondi, Maurizio Lupi, il fraterno Gianfranco Micciché, Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello, il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini e il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. Soltanto la finiana Angela Napoli, sul suo blog, parla di «pudore» e di «deriva delle Istituzioni».

Secondo Carlo Giovanardi «la sentenza di Palermo su Dell’Utri spazza via un teorema illogico e intellettualmente disonesto, e tenta di addebitare la strategia mafiosa stragista di quegli anni a chi all’epoca non soltanto non esisteva, ma che nessuno allora neppure lontanamente pensava potesse esistere in futuro». Peccato che lo sapesse già Cosa nostra che, come si legge nella sentenza d’appello del processo borsellino-bis, «alla fine di maggio del 1992 […] era in condizione di sapere che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio Mangano con Dell’Utri e Berlusconi». Totò Riina quindi «aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell’intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo, ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese».


Sarà che Giovanardi non conosce questa sentenza che, insieme alle prove del processo Dell’Utri, qualsiasi saranno le conclusioni della Corte, solleva una questione politica di primaria importanza. Può un signore che secondo una sentenza d’appello ha collaborato con la mafia siciliana fino al 1992 e che dalla mafia ha preso, seppure inconsapevolmente, i voti almeno fino al 1999 sedere nel Senato della Repubblica e rappresentare il più grande partito d’Italia? Secondo i giovani del Pdl non può. Ieri i giovani siciliani di Azione Universitaria hanno rilasciato due comunicati che hanno fatto tremare i vertici del partito. Il primo, dopo la sentenza: «Oggi più che mai sentiamo l’esigenza di avviare una riflessione profonda all’interno del partito dopo questa condanna che rimane gravissima soprattutto per un uomo impegnato in politica. Non ci uniremo al solito coro di solidarietà già tristemente visto negli scorsi anni per i politici condannati. Il nostro movimento giovanile non può rimanere in silenzio davanti a fatti che minano la credibilità di un intero partito». Poi, dopo che Dell’Utri in conferenza stampa ha ribadito che «Vittorio Mangano è stato il mio eroe e lo è ancora» (un messaggio, secondo Massimo Ciancimino, indirizzato ai boss in carcere) arriva il secondo comunicato: «Mentre Dell’Utri continua a definire un eroe il mafioso Vittorio Mangano, noi affermiamo con orgoglio che gli eroi dei giovani siciliani sono persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».

Per fortuna ci sono i giovani. Ragazzi che hanno capito che chiedere le dimissioni di un uomo che ha avuto rapporti con la mafia non è giustizialismo, ma rispetto per le Istituzioni. Ci si dovrebbe domandare se per farlo era necessaria la sentenza, o se bastavano le intercettazioni telefoniche e ambientali, le annotazioni sulle agende e le dichiarazioni di più di trenta pentiti. Lo ha scritto, qualche settimana fa, Barbara Spinelli su La Stampa: non bisogna sottrarsi alla verità «solo perché a volte in un’inchiesta o in un processo mancano le prove conclusive necessarie a una condanna giudiziaria, ma ci sono tutti gli elementi sufficienti a una condanna politica. Solo anticorpi politici e civili altrettanto forti di quelli giudiziari possono garantire davvero la legge e l’ordine. I veri giustizialisti sono coloro che consegnano ai giudici il monopolio del giudizio».
 

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