Il Padova Jazz Festival ha tagliato il traguardo della XXVesima edizione
Dal ricco cartellone, i concerti del Joey Calderazzo trio e dell’Osby, Arbenz & Krijger Organ trio
Il festival patavino, organizzato dall’Associazione culturale Miles, presieduta da Gabriella Piccolo Casiraghi, ha festeggiato le nozze d’argento con la città, attraverso 17 concerti e una serie di eventi collaterali : mostre fotografiche, installazioni artistiche, presentazioni di libri.
Assisto a due concerti, che hanno avuto luogo in due giornate consecutive.
Il primo, nella sala dei Giganti al Liviano, ha visto protagonista il nuovo trio del pianista/tastierista Joey Calderazzo (New York, 27 febbraio 1965), che già suonò al festival nel 2016.
Assieme a Donald Edwards, dalla Louisiana, alla batteria, da molto tempo con il leader, la sezione ritmica era completata da Orlando le Fleming al contrabbasso, una cavata sicura e uno stile piacevole.
Hanno costituito una base solida, funzionale ai lunghi assolo del leader e del sassofonista contralto Miguel Zenon, portoricano, invitato per il tour europeo.
Sette i brani in scaletta, tutti del pianista, ad eccezione di uno di Michael Brecker, forse un omaggio al sassofonista, da tempo scomparso, che lo lanciò appena ventiduenne.
Molti tempi lenti per ballad che a un certo punto crescevano nel metronomo e di medio-veloci, eseguiti con accuratezza, anche se, almeno per chi scrive, non arrivavano al cuore dell’ascoltatore.
Il primo brano, Conversation among the Ruins, è una lunga ballad, iniziata in solitudine da Calderazzo ad una tastierina elettrica, fedele punto di appoggio accanto al pianoforte.
Melodico e classicheggiante, il suo tocco ha stimolato un lirico assolo di Zenon, abbellito dal sostegno delle spazzole e di un piatto chiodato, fatto in casa, mediante l’utilizzo della catenella, un tempo utilizzata nella toilette.
Un paio di brani hanno ricordato certi titoli dei Jazz Messengers di Art Blakey, assai ruspanti, mentre non mi è affatto piaciuto un easy listening, dolciastro, che ha riportato alla memoria certe composizioni del quartetto europeo di Keith Jarrett con Jan Garbarek.
Un finale afro-cubano ha riscaldato leggermente l’atmosfera, grazie anche al bel solo iniziale di le Fleming.
Il pubblico, educato e per niente chiassoso, ha profuso applausi dopo ogni brano di un concerto, generoso nella durata (90 minuti), in tempi in cui i musicisti tendono a ridurre la lunghezza delle esibizioni.
Non mi capita spesso, di questi tempi, di ascoltare della buona musica, ma soprattutto fresca, capace di far emergere il carattere del singolo musicista.
E’ successa un’eccezione in un nuovo spazio acquisito dal festival, l’aula Rostagni del Dipartimento di Fisica e Astronautica Galileo Galilei dell’Università degli Studi di Padova, dove si è esibito l’Osby, Arbenz & Krijger Organ Trio.
Una stimolante scaletta di composizioni originali, quasi tutte del batterista e percussionista svizzero Florian Arbenz (Basilea, 1975), ideatore di un interessante trio, completato dal veterano sassofonista Greg Osby (St.Louis, 3 agosto 1960) e dal tastierista olandese Arno Krijger (1972), specialista dell’organo Hammond B3 : si è portato il suo strumento, un esemplare americano, datato 1964.
Del trio è uscito ad aprile “Conversation 9. Targeted”, nono titolo di un progetto di Arbenz. Impossibilitato a suonare dal vivo nel periodo di chiusura totale imposta da molti governi, che hanno approfittato della pandemia per togliere ad ogni cittadino la libertà di muoversi, il batterista ha pensato di invitare diversi musicisti nel suo Hammer Studio di Basilea, per incidere 12 CD e LP, intitolati Conversation, ognuno seguito da un numero, preceduto dal simbolo del cancelletto.
Il concerto, nella confortevole e raccolta aula Rostagni – i musicisti sembravano interpretare il ruolo di professori ; il pubblico, quello degli alunni – ha ottenuto un meritato successo, sia per la bravura degli interpreti, sia per la perfetta intesa, frutto di una 25ennale collaborazione tra Osby e Arbenz e di un feeling immediato tra i due e Krijger, per la prima volta in tour assieme a loro.
Sette i brani in scaletta, compreso il bis. Soltanto tre facevano parte del repertorio del disco. Una scelta, riflettendo, forse dettata dalla decisione di dare la precedenza all’ascolto di composizioni originali, ad eccezione di Freedom Jazz Dance del tenorsassofonista e pianista Eddie Harris (Chicago, 1934 – Los Angeles, 1996), brano presente anche in altri volumi del progetto citato, eseguito come ultimo, prima dell’immancabile bis.
In esso è emersa una felice intesa ritmica, stimolante l’improvvisazione tra Osby e Arbenz, cui spetta di tratteggiare l’atmosfera. Un breve assolo iniziale di batteria, con l’intenzione di determinare il ritmo, prelude all’ingresso del sassofono che apporta una sapiente verve improvvisativa e crea un intenso dialogo, ritmico e melodico, arricchito, dopo tre minuti dall’entrata di una dolce sonorità dell’Hammond. Finchè, dopo uno stop all’unisono, marcato da uno Splash del piatto, parte un assolo particolarmente ispirato. Arbenz lo accompagna accentandolo con una serie di contraccolpi che diffondono una certa dose di tensione. Osby rimane in sottofondo, finché, a circa novanta secondi dalla fine, trova la maniera adatta per dialogare con la tastiera.
Deliziosa, The Passage of Light, una composizione originale definita dal leader, “peaceful”, tranquilla, calma, rilassata. Tutto questo è causato da Arbenz, che abbandona il drum set, appoggiando due Kalimbe sul rullante e una sul timpano. La Kalimba, o Sanza o Thumb Piano (Piano da Pollice) è uno strumento a percussione, in cui una serie di lamelle intonate, fissate ad una cassa di risonanza costituita da una scatola lignea o da un guscio svuotato di zucca, vengono premute dai polpastrelli dei pollici delle mani. Sul morbido suono, che può far pensare ad un Carillon, Osby si insinua con il contralto, dando vita ad una sorta di meditata riflessione.
Truth, il bis conclusivo, è una composizione di Osby che la inizia in solitudine, dettandone il disegno ritmico e viene poi raggiunto prima da Arbenz, poi da Krijger. Un Hard Bop attuale, trascinante, che concede al pubblico altri nove minuti di ottima musica.
Applausi sinceri preludono all’acquisto del Cd o del vinile, firmati con affetto dai protagonisti.
Un’ultima segnalazione. Greg Osby ha suonato esclusivamente il sax contralto, mentre nel disco utilizza anche il soprano.
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