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I vizi della Seconda Repubblica: correnti e fondazioni

Con la fine della prima repubblica il sistema di finanziamento dei partiti è finito in crisi. Le necessità di un sistema però non finiscono semplicemente con la cessazione dei vecchi riti.

Così è successo che quello che nella prima repubblica era in embrione, nella seconda è diventato sistemico e funzionale per le esigenze dei vari attori. La corruzione dai partiti si è cioè trasferita in pianta stabile nelle correnti. E dal finanziamento ai partiti si è arrivati all’arricchimento personale. In questo contesto da quel grande innovatore della politica Massimo Dalema si è distinto come apripista. Temprato da anni di militanza nelle strutture del PCI, il segaligno baffino ha subito intuito quanto andava fatto. Il caro Massimo ha avuto anche la geniale intuizione del nuovo ruolo da far assumere alle fondazioni. In quest’ambito la fondazione "culturale" riveste una funzione molto interessante di scrematura. Un imprenditore o un faccendiere che abbia un qualche interesse da coltivare può avvicinare le correnti facendo una donazione alla fondazione di riferimento. Questo è un segnale; è come se dicesse "eccomi qua, ho la grana e sono disposto a spendere". Perché diciamolo chiaramente: è mai credibile che ci siano altri motivi che possano spingere un uomo d’affari a finanziare un gruppo di pennaioli? Avete mai letto le incredibili banalità di tante fondazioni? La fondazione è una sorta di filtro superato il quale i rapporti con i politici possono essere più aperti ed espliciti. Naturalmente dopo questa fase i pagamenti diventano offshore e non certo a beneficio della fondazione.
 
Il sistema fondazione-corrente è una soluzione vincente perché offre serietà, discrezione, impermeabilità. Siamo anni luce dal mondo pre tangentopoli in cui la corruzione avveniva quasi alla luce del sole. E da qui arriviamo agli anni d’oro di baffino. Ai tempi della investment bank di palazzo Chigi in cui l’ex comunista D’alema sembra colto da una frenesia privatizzatrice incontrollabile. Il paragone con la banca di investimento è piuttosto malizioso soprattutto se pensiamo alle pingui commissioni dei banchieri d’affari. E poi arriviamo agli ultimi tempi meno felici di un D’alema più appannato, all’opposizione e in ombra. Ma sempre attivo come la sfortunata vicenda di Consorte dimostra.
 
D’alema è stato anche il maestro e il modello per alcuni uomini politici fra cui l’attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma fra il discepolo e il maestro la differenza è tanta. Un D’alema non si farebbe mai beccare con il cognato residente a Montecarlo in un immobile che scotta. D’alema è semplicemente troppo furbo, troppo temprato da anni di militanza alla scuola del PCI. E Fini è semplicemente troppo naif. Il parallelismo non poteva che finire che col miserrimo naufragio della barca finiana. E dire che tutte le premesse erano state curate: dalla fondazione alla corrente di fedelissimi. Mancava solo il tassello finale: il voto di tessera e il potere correntizio all’interno del partito. Peccato che questo sogno sia andato in frantumi.
 
Tuttavia a questo proposito il richiamo del capo dello stato sull’inopportunità delle inchieste di Feltri è quanto mai sentita specie dall’opposizione. Per vari ordini di motivi. Il primo è che mantenere un Fini spina nel fianco di Berlusconi fa comodo alla sinistra. Il secondo motivo però è più serio. Le inchieste su Fini rischiano di rivelare un po’ troppo sugli usi e costumi della classe politica italiana. Ed è meglio non far cogliere troppe analogie. Il gossip sulle attività erotiche del presidente del consiglio sono già molto più adatte a nutrire la curiosità dell’opinione pubblica. Giusto quindi il richiamo del nostro rispettabile e serio capo dello stato.
 

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