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I superbug: i super-batteri che si adattano agli antibiotici.

L’etimo delle parole a volte ci fa scoprire aspetti della realtà di cui non siamo a conoscenza, e che difficilmente avremmo immaginato. La parola “antibiotico”, derivata dal greco, significa “contro la vita”: anti = contro; bios = vita. Ci si riferisce alla vita dei batteri, talmente pericolosi per l’uomo da poterne provocare la morte nei casi più gravi. Prima della scoperta di questo farmaco salva-vita infatti anche un semplice raffreddore o una piccola ferita potevano essere letali e il premio Nobel attribuito ad Alexander Fleming, che scoprì la penicillina nel 1928, conferma l’importanza capitale dell’antibiotico. Il farmaco nel tempo fu perfezionato e affiancato da nuove formulazioni idonee a curare diverse infezioni: iniziò una nuova epoca, quella dell’antibiotico e delle vaccinazioni. Con il passare degli anni l’attenzione della medicina iniziò a focalizzarsi su altri tipi di malattie considerate più gravi; sono stati compiuti enormi passi in avanti su molti fronti (basti pensare all’evoluzione nelle tecniche dei trapianti o nella cura all’infertilità) ma ultimamente quello che sembrava un capitolo chiuso della medicina è tornato alla ribalta: l’allarme antibiotici è stato lanciato dall’Oms a gran voce.

Crescita dei superbugs

“Superbugs”: questo il nome che è stato dato ad alcune tipologie di batteri talmente resistenti da non poter essere trattate con gli antibiotici oggi disponibili. I superbugs sono la causa di infezioni particolarmente gravi, rispetto alle quali i medici non hanno cure e non possono applicare una linea difensiva. Per capire l’entità del rischio è sufficiente dare un’occhiata ai numeri: ogni anno in Italia muoiono all’incirca 11.000 persone a causa di infezioni che risultano incurabili; in Europa le cifre parlano di 25.000 morti all’anno, mentre in tutto il mondo il numero sale a 250.000 per la sola tubercolosi. Sono cifre che parlano da sé, senza contare i costi per la sanità: da qui al 2050 le stime parlano di 13 miliardi di Euro per la sola Italia, di 100.000 miliardi a livello mondiale.

La gravità si acuisce in quei Paesi in cui la popolazione è maggiormente soggetta a traumi violenti o accidentali, come in alcune zone del Medio Oriente. L’organizzazione Medici Senza Frontiere è messa a dura prova anche di fronte ad infezioni post-operatorie che, ad una prima valutazione, potrebbero essere facilmente curabili grazie alla somministrazione di un comune antibiotico. A Mosul, in Iraq, ben il 40% dei pazienti operati risulta invece resistente ai farmaci antibatterici.

Le cause della crisi

Come siamo arrivati a questo punto, o meglio: come siamo tornati così indietro da dover temere una semplice infezione? Una delle cause principali va rinvenuta nell’uso massiccio che, negli anni, è stato fatto degli antibiotici: tra “uso” (corretto) e “abuso”, la differenza è netta. In Italia l’antibiotico è stato per decenni “un quasi-farmaco da banco” (senza obbligo di prescrizione del medico) e oggi il 9% degli italiani dichiara di automedicarsi con gli antibiotici, acquistandoli senza la prescrizione medica o assumendo quelli che trova in casa. Se il fine giustifica i mezzi (ironicamente parlando), il 35% di loro lo fa per somministrarli al proprio figlio. Quello che in ogni caso determina un così ampio ricorrere a questo tipo di farmaco è, in Italia come nel resto del mondo, il suo costo contenuto. Soprattutto nei Paesi a basso reddito, in cui la cultura della salute è più latitante, la cura più economica e rapida viene preferita ad una più costosa, indipendentemente dai suoi effetti collaterali. L’abuso degli antibiotici ha portato quindi ad una sorta di assuefazione dei batteri agli antibiotici stessi, vanificandone l’effetto “anti-vita”.

Le soluzioni? 

Se la situazione sembra quasi paradossale, basta evidenziare un ulteriore rapporto. L’Italia è in testa alla classifica europea per numero di morti dovute a batteri antibiotico-resistenti e, allo stesso tempo, è il Paese europeo che più ricorre agli antibiotici sugli esseri umani, mentre è al terzo posto per l’utilizzo sugli animali negli allevamenti intensivi (la finalità in questi casi è – più che curativa – di aumento della produttività). I trattamenti di massa sugli animali sono stati condannati più volte dai piani ministeriali e l’UE sta dettando delle normative di prevenzione, anche se gli interessi economici sono particolarmente “resistenti” rispetto ad altre istanze. È fondamentale invece correre ai ripari: la situazione è grave e le prospettive future sono preoccupanti. La prevenzione è sempre l’arma migliore: le recenti polemiche sorte in Italia da parte dei “no vax” risultano più che mai immotivate, considerando che i vaccini stessi possono prevenire l’insorgenza di infezioni difficilmente curabili in seguito. Prevenzione vuol dire anche promuovere delle politiche idonee allo scopo: porre un freno alla smodata prescrizione degli antibiotici, far recuperare abitudini igieniche elementari ma preziose (come lavarsi spesso e accuratamente le mani). E investire in ricerca: nonostante le industrie farmaceutiche si siano dirette verso settori più redditizi, occorre riportarle indietro nel tempo, quando per una comune infezione non si rischiava di morire.

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