I rischi insiti nel referendum sulla cannabis legale
Ora il testo del quesito referendario passerà al vaglio della Corte di cassazione e della Consulta e con ogni probabilità si andrà al voto nella prima metà del 2022
In appena una settimana, la raccolta firme promossa da Radicali Italiani, +Europa, Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, Verdi, Possibile e un nutrito numero di associazioni ha raggiunto le 500 mila firme, ossia la soglia minima richiesta dalla Costituzione per l’indizione di un referendum abrogativo (art. 75, co. 1 Cost). Il risultato è stato raggiunto con notevole rapidità, complice anche la modalità adottata per la raccolta delle firme, che per la prima volta in Italia si è svolta esclusivamente online mediante autenticazione digitale e firma elettronica attraverso SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale). Il merito è di un emendamento alla recente legge di conversione del decreto-legge “Semplificazioni”, presentato da Riccardo Magi, presidente di +Europa ed ex segretario dei Radicali italiani, che sembra essere passato del tutto inosservato ma che in realtà rappresenta una svolta, perché permette di raccogliere le firme necessarie per l’indizione di un referendum senza banchetti, fogli, scartoffie varie e l’impegno di migliaia di volontari. Vedremo se la modalità verrà estesa anche alle leggi di iniziativa popolare che necessitano di un numero di firme assai più basso di quello richiesto per i referendum, ovvero appena 50 mila firme (art. 71, co. 2 Cost.). Ma torniamo alle ragioni del referendum. Esso nasce con l’obiettivo di apportare alcune modifiche al Testo Unico in materia di stupefacenti (d.P.R. n. 309 del 1990), intervenendo sul duplice piano della rilevanza penale e di quella amministrativa. In primo luogo, il quesito referendario mira a depenalizzare il reato di coltivazione non autorizzata, ossia la prima condotta incriminata dall’art. 73 T.U. stupefacenti, e ad abrogare la pena detentiva da due a sei anni prevista per tutte le altre condotte elencate dalla norma qualora abbiano ad oggetto la cannabis. In secondo luogo, i promotori del referendum propongono di eliminare la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori, oggi prevista dall’art. 75 T.U. stupefacenti per le condotte di importazione, esportazione, acquisto, ricezione a qualsiasi titolo e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope per farne un uso personale.
Quanto al primo punto, ossia la depenalizzazione del reato di coltivazione per uso personale, se il referendum dovesse passare, si opererebbe una distinzione tra chi ha una coltivazione di tipo “domestico, quindi di ridotte dimensioni (ad esempio, chi coltiva poche piante di marijuana in casa) e chi, al contrario, ha una coltivazione di tipo “tecnico-agrario”, ossia di notevoli dimensioni. Il primo sarebbe punito con una sanzione amministrativa, diversamente dal secondo la cui condotta continuerebbe ad integrare gli estremi di un reato, giacché in questo caso la quantità di cannabis prodotta eccede quella necessaria per il consumo personale. Con ciò il referendum rimetterebbe in discussione il prevalente orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale costituisce un fatto penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sia possibile estrarre sostanze stupefacenti. La ratio sottesa a tale giurisprudenza sta nel fatto che la condotta della coltivazione è considerata maggiormente pericolosa del bene giuridico tutelato dalla norme in materia di stupefacenti, ossia la salute collettiva, in quanto contribuisce a far aumentare la quantità di sostanze stupefacenti in circolazione. Tale considerazione giustificherebbe l’irrilevanza penale della finalità del consumo personale ai fini dell’integrazione del reato di coltivazione. I promotori del referendum affermano che la depenalizzazione del reato di coltivazione andrebbe a vantaggio di quanti consumano la cannabis per finalità terapeutiche. Occorre ricordare però che la finalità terapeutica è già oggi lecita e che se questa costituisce davvero l’obiettivo di tale referendum sarebbe stato più agevole innalzare il quantitativo consentito per finalità terapeutiche senza operare una legalizzazione tout court.
Quanto al secondo punto del quesito referendario, ossia l’eliminazione della sanzione amministrativa della sospensione della patente, oggi prevista per chi detiene sostanze stupefacenti o psicotrope o ne fa uso personale. La norma (art. 75 T.U. stupefacenti) prevede, oltre alla sospensione della patente, anche quella del passaporto, della licenza di porto d’armi e del permesso di soggiorno, nel caso in cui il soggetto in questione sia extracomunitario. Il referendum interviene solo sulla sospensione della patente, pertanto le altre sanzioni continuerebbero ad essere applicabili in caso di esito positivo. I promotori del referendum hanno giustificato tale scelta sulla base del fatto che la sospensione della patente “è quella che maggiormente incide sulle abitudini delle persone, comportando serie complicazioni anche per le attività quotidiane, come ad esempio recarsi a lavoro”. È vero che la sanzione rimarrebbe in vigore per chi venga colto alla guida di un’auto o di un ciclomotore in stato di alterazione psicofisica dovuta all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope – in questo caso il Codice della strada (art. 187) prevede l’arresto da sei mesi ad un anno e l’ammenda da 1500 a 6000 euro, oltre alla sanzione accessoria della sospensione della patente da uno a due anni – ma in questo modo si eliminerebbe un importante deterrente.
Un terzo punto che non ha a che fare con il contenuto del quesito referendario in sé considerato ma che ciononostante merita un approfondimento riguarda la modalità di acquisizione delle firme mediante SPID. Il numero minimo delle firme resta invariato a quota 500 mila, ma la possibilità di raccogliere le firme attraverso SPID rende la richiesta di indire un referendum “esageratamente facile”, come ha ricordato Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienze politicche presso l'Università di Bologna e accademico dei Lincei, in un suo recente articolo apparto su Domani. Occorre ricordare che il referendum abrogativo fu concepito dai costituenti quale strumento per garantire a quanti erano stati sconfitti in Parlamento e a tutti coloro i quali erano contrari a una certa legge di poter fare appello ai cittadini per vanificarne gli effetti. Allora la popolazione italiana si attestava intorno a 45 milioni di abitanti; oggi, a distanza di più di settant’anni, supera i 60 milioni. Per non parlare delle enormi difficoltà esistenti al tempo per raccogliere le firme necessarie a indire un referendum, che non erano dovute solamente al fatto che non esistessero ancora Internet, computer e smartphone. In più di un’occasione è stato proposto di innalzare il numero delle firme per l’indizione dei referendum abrogativi, ma senza successo. Oggi la questione dell’innalzamento delle firme assume, o quantomeno, dovrebbe assumere centralità nel dibattito politico. La rivoluzione digitale apre infatti a nuove forme di partecipazione politica e l’istituto referendario, in questo nuovo contesto, potrebbe mutare il proprio significato, passando da strumento di integrazione del processo legislativo mediante l’espressione diretta della volontà popolare a strumento per mettere in discussione e, in caso di esito positivo, annullare tutti (o quasi) i provvedimenti adottati dal Parlamento. La nuova normativa favorisce la proliferazione di nuovi referendum, da quello contro il green pass a quello contro il reddito di cittadinanza, le cui firme potrebbero essere raccolte con estrema rapidità, ostruendo l’attività parlamentare, tanto che alcuni osservatori già parlano di una “SPID-democracy” (lett. “democrazia attraverso SPID”), o meglio, di una “speed-democracy” (lett. “democrazia veloce”). Sarà interessante leggere le considerazioni della Corte costituzionale, che si esprimerà sull’ammissibilità del referendum entro la fine dell’anno.
Foto d'intestazione: pianta di cannabis (da Pixabay, libera da copyright)
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