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I punti programmatici non negoziabili dell’ultimo scorcio di legislatura

Ultimo episodio (solo in ordine cronologico) della saga del paese più disfunzionale d'Occidente. Che non riesce a evadere dalla gabbia della realtà

In molti, ora, diranno che Mario Draghi ieri in Senato per le cosiddette comunicazioni fiduciarie, ha deliberatamente sfidato il sistema partitico, dettando i punti programmatici non negoziabili dell’ultimo scorcio di legislatura, per poter levare il disturbo. Prendere o lasciare, con la reiterazione di quella domanda “siete pronti?”, che tradiva una crescente irritazione.

“Non è un politico, non si fa così, il parlamento è sovrano”, eccetera. Vero. Forse i tempi delle mediazioni erano ampiamente terminati, visto che ormai da troppo tempo questo esecutivo segnava il passo. I partiti sono arrivati all’appuntamento di ieri nella modalità che conoscono: il discorso “ri-programmatico” come sommatoria di istanze e pet project identitari, spesso molto costosi e disfunzionali.

FINE DI UNO STILLICIDIO. E DI UN EQUIVOCO

Forse Draghi, comprendendo che gli ultimi mesi sarebbero stati tutti così, ha premuto sull’acceleratore dell'”impolitica”, e del prendere o lasciare. Ora ci saranno quelli che lo accuseranno anche di questo; fa parte del gioco non particolarmente sano di un paese in crisi difficilmente reversibile (vedete quanto sono ottimista, con l’avverbio?). E del resto, il parlamento è “sovrano”, anche su un cumulo di macerie da cui percolano liquami.

Il governo Draghi è nato con l’ambizione, la velleità o la finzione di essere “politico” e di “unità nazionale”. Se ne comprende forse il motivo, visto che è nato da una crisi partitica e non per una crisi economica conclamata. Quindi i partiti, pur se in difficoltà, non avevano ancora prodotto la quasi-bancarotta vista ai tempi dell’arrivo di Mario Monti e facevano resistenza ad accomodarsi per qualche giro sul sedile posteriore. Visto soprattutto il grande jackpot del Recovery Fund.

Governo “politico” forse per qualcuno voleva esattamente dire governo che somma le istanze dei singoli partiti, col cartellino del prezzo a carico dell’Europa matrigna. Forse Draghi ha alimentato la leggenda dell’esecutivo “politico” per non umiliare i partiti, confidando che alla fine avrebbero accettato docilmente le sue decisioni e il suo programma, ed è caduto vittima della sua stessa illusione. Perché purtroppo, quasi da subito si era visto che le cose sarebbero andate altrimenti.

L’uscita dalla maggioranza dei pentacolliquati e del loro irrisolto leader per caso avrebbe messo Draghi nella condizione di subire quotidiani ricatti dalla Lega di Matteo Salvini, uno che sta percorrendo il viale del tramonto politico e che proprio per questo le tenterà tutte per invertire o ritardare quest’ultimo viaggio. Con Meloni ce la giochiamo, avrà pensato, con la stessa sagacia strategica e tattica di un adolescente con problemi di concentrazione.

Inoltre, con i pentacolliquati fuori dalla maggioranza, anche l’ambizione del maggiore zombie della politica italiana, il Partito democratico, di creare il cosiddetto campo(santo) largo con i residui del M5S da conferire all’organico sarebbe stata a rischio. Forse a Draghi di questo fregava il giusto, cioè zero, o forse no. Non lo sapremo mai.

LE DEBOLEZZE IN GIOCO

La cosiddetta coalizione di destra semplicemente non è tale; lo vediamo da tempo, tra scazzi e sgambetti di ogni genere. La lotta per l’egemonia è durissima e manifesta. Fratelli d’Italia punta a drenare voti alla Lega anche e soprattutto al Nord. Per questo tale coalizione semplicemente non è tale.

Silvio Berlusconi ha ceduto alle spallate dei suoi due cosiddetti partner di coalizione perché in cuor suo mai ha abbandonato la speranza che, nella nuova legislatura, potrà finalmente ascendere al Colle più alto, e farne il suo mausoleo, dopo aver congedato Sergio Mattarella argomentando che “una nuova era” è sorta. Un desiderio da fine vita, non solo politica, fors’anche comprensibile.

Fratelli d’Italia, nella sua resistibile ascesa nei dintorni del 20%, pare aver “conquistato” spezzoni del cosiddetto establishment, di qualunque cosa si tratti. Resta un partito da definire, soprattutto in politica economica, perché non basta berciare ai comizi, in Italia e all’estero. Quanto visto e letto sin qui, in termini di economia, non saprei se definirlo più imbarazzante, ridicolo o tenero. Motivo per cui il cosiddetto establishment fornirà qualche “tecnico d’area” per aiutare la crescita del partito e mettergli le rotelline stabilizzatrici alla bici.

Del Pd ho detto, e ribadisco: c’è in corso un tentativo di Opa da sinistra, interna ed esterna al partito, che causerà forti tensioni. Alla fine, non escluderei scissioni malgrado il collante dei soldi e del patrimonio partitico. Vedremo. Di certo, l’idea malata del campo(santo) largo, cioè di fare i portatori d’acqua e donatori di sangue all’uninominale per dei signori nessuno che portano in dote il logo di una bad company e istanze populistiche di spesa pubblica sarà ancora utilizzata nel contesto dell’Opa sinistra, interna ed esterna, sul partito.

L’INCOGNITA PNRR

Sotto l’aspetto della politica economica, resta una enorme incognita: il PNRR. Il fatto che l’Italia abbia deciso di “tirare” tutto l’importo dei prestiti europei mi ha sempre inquietato molto. Temo che questo debito sarà l’ultimo chiodo nella bara del paese. E non perché ora non ci sarà più Draghi a dirigere lo stato di avanzamento dei lavori.

Anzi, a questo riguardo credo serva una precisazione. Si parla di milestone e di “traguardi”, a decine sbloccati dall’esecutivo italiano come in un entusiasmante videogame, per ricevere i leggendari “bonifici da Bruxelles”. Io temo si tratti soprattutto di passaggi formali, che l’erogazione sia in prevalenza fiduciaria perché rimessa alla credibilità e alla reputazione di Draghi ma che, alla fine, le cose potrebbero comunque finire male, nel punto in cui “il copertone tocca la strada”, cioè si realizzano fisicamente le opere.

Ovvio che, essendo erogazioni condizionate a “riforme”, molte delle quali invise alla destra, il processo potrebbe subire un ruvido arresto, soprattutto ora che a Bruxelles non ci sarà più la figura garante di Draghi. Allo stesso modo, vedremo la legge di bilancio di un eventuale governo di destra, forse già a fine 2022. Qui il modus operandi resta il solito: sussidi finanziati a mezzo di condoni di vario genere, in primo luogo inesistenti rottamazioni fiscali. La ricetta certa per finire sugli scogli il prima possibile. Seguiranno orgogliose forme di accattonaggio verso l’Europa. È il sovranismo all’italiana, bellezza.

Come che sia, il parlamento resta sovrano, anche nelle sue vigliaccherie e furbate. Dopo tutto, resta espressione del corpo elettorale. Che a volte guida, altre volte insegue. Avere presidenti del consiglio che sono il prodotto dei ricorrenti fallimenti del sistema partitico indica solo il grado di disfunzionalità del sistema-paese, ma è inutile ripetersi.

L’Italia resta inserita in un sistema che, pur con tutte le sue limitazioni, riesce a esercitare un controllo esterno anche sulle più sfrenate fantasie medioriental-sudamericane del nostro elettorato e dei suoi rappresentanti pro-tempore. Qualcuno lo chiama limitazione della sovranità, altri vincolo di realtà. Resta il costante attrito verso il declino, anche per cause demografiche, inframmezzato da nuovi fallimentari esperimenti del pestilenziale laboratorio d’Occidente e del suo confabulatorio parlamentare, che spesso assume le fattezze di un circo. Ma anche questo lo abbiamo ripetuto più volte.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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