• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Società > I cattivi esempi e l’illusione della normalità

I cattivi esempi e l’illusione della normalità

Vengo subito al sodo. Quel che è accaduto sabato a Roma va condannato senza equivoci e con vigore. E va espressa assoluta solidarietà alle vere vittime dell'ennesima scorribanda degli sciacalli in nero: le centinaia di migliaia di indignati italiani, i cittadini della Capitale, le forze dell'ordine. Chi invece non può trovare assoluzione, pure in questo caso, è il "sistema Italia" nel suo complesso. A partire da una classe dirigente in larghissima parte cieca e sorda di fronte ai tanti segnali di sofferenza e di frustrazione che da tempo provengono dalla società, sempre più sfibrata e mortificata dal perpetuarsi di ingiustizie alle quali sistematicamente si evita, per incapacità e per convenienza, di porre rimedio. E da un clima di "guerra civile simulata" creato ad arte dalla Casta politica, per meglio controllare le coscienze anche attraverso i mezzi di informazione e per indebolire la capacità di reazione popolare.

Le motivazioni che avevano indotto tante associazioni e persone comuni a darsi appuntamento in Piazza San Giovanni, in quel luogo sacro da sempre deputato ai raduni civili e in questa occasione stuprato dalla violenza del solito manipolo di estremisti, rimangono validissime e non possono essere smontate da chi ha interesse a soffocare ogni legittima e pacifica manifestazione di dissenso nei confronti del potere. No, gli indignati di casa nostra hanno il diritto e il dovere di continuare la loro battaglia. In particolare i giovani, la parte più emarginata del nostro tessuto sociale, che ora non meritano di essere considerati tutti come dei potenziali terroristi pronti a minare la stabilità democratica del Paese.

A dirla tutta, però, permangono sullo sfondo anche i rischi che le scene di guerriglia dell'altro pomeriggio, in assenza di una svolta di tipo politico ed economico, non restino circoscritte agli atti vandalici di pochi esaltati ma diventino la tentazione di quanti, anche in modo non organizzato, colti dalla crescente disperazione per la propria condizione personale e familiare, possono iniziare a intravedere nello strumento della rivolta l'unica concreta possibilità di cambiamento e di salvezza. E' l'amara sorte che ci attende se continueremo a negare a noi stessi l'insostenibilità della situazione di declino e di degenerazione morale a cui siamo piegati da lunghissimo tempo. E se insisteremo imperterriti nella finzione che, in fondo, il nostro è un Paese normale. Secondo alcuni, perfino "più normale" di molte altre realtà.

A quella signora in lacrime che, davanti alle telecamere, guardava impotente l'unica auto della propria famiglia, comprata a rate, perdersi tra le fiamme appiccate dai black bloc, bisogna far sentire tutta la vicinanza delle persone perbene. La stessa vicinanza, tuttavia, che bisognerebbe mostrarle ogni volta che un politico corrotto, un evasore fiscale, un cittadino disonesto si arricchisce o campa da parassita sulle sue spalle. Proprio così, perché tutte le forme di violenza sono da biasimare, anche quella di tipo morale esercitata dall'ingorda classe dirigente avvezza al malaffare o dagli spregiudicati speculatori della finanza.

Ecco perché, in fondo, l'esplosione irrazionale di rabbia di quei teppisti col casco scuro non deve meravigliare più di tanto. E' la società perversa dell'oggi che fornisce loro i modelli, una società fondata sul capitalismo esasperato dove i ricorrenti meccanismi di esclusione vengono ormai considerati come un semplice ed inevitabile effetto collaterale del sistema. La rissa permanente che caratterizza il dibattito pubblico nelle istituzioni, in televisione, perfino al mercatino sotto casa, nasce per il subdolo messaggio, ripetuto con morbosa insistenza, che è necessario essere competitivi e aggressivi per sopravvivere nella giungla moderna, perchè non c'è più spazio per tutti e il più forte prevale sul più debole.

In tale giostra a spuntarla sono quasi sempre gli stessi, i detentori di privilegi ottenuti spesso senza merito e ostentati altrettanto spesso con arroganza, che di concorrere al benessere collettivo non ci pensano affatto. E come può reagire, alla lunga, chi invece a malapena sta al mondo? La disperazione è la premessa della ribellione, che fin quando rimane dentro le regole del confronto civile va bene ma che prima o poi può sfociare in atti di violenza ancor più pericolosa di quella di sabato a Roma. Se ad assaltare le istituzioni, ad incendiare i furgoni delle forze dell'ordine, a compiere razzie nei negozi non fossero giovani anarchici, forse un po' viziati, ma padri di famiglia che hanno perso il lavoro o trentenni condannati alla precarietà eterna o ex piccoli borghesi che non arrivano più alla fine del mese, allora sì che dovremmo preoccuparci.

E quando si dice che "è andata bene", perché poteva scapparci il morto e la distruzione rivelarsi di proporzioni più vaste, è appunto su questo che bisogna riflettere. Quante persone conoscete depresse e avvilite, che si lamentano ogni giorno della propria condizione, che non amano più la vita, che si sentono fallite e messe ai margini da una società ingiusta? Quante ne incontrate al bar, per strada, al lavoro, tutte sull'orlo del baratro e pronte a far esplodere la propria rabbia? Ecco, è di loro che il Paese deve cominciare ad aver paura. Di quanti non hanno mai avuto niente e di quelli che stanno perdendo tutto. Perché sono loro gli attori dell'infelice ed autentica "normalità" rimossa o dimenticata, che prima o poi chiederanno conto al sistema della propria miseria. La violenza è l'oblio della ragione, ma a volte è la naturale risposta a un andazzo che si ostina a non capire il disagio e a favorire le iniquità.

Prendiamo gli ultimi dati della Caritas sulla povertà e sull'esclusione sociale: i "nuovi poveri" sono in costante aumento, italiani che pur risiedendo in una casa o possedendo un lavoro rientrano fra le persone con disagi economici importanti legati a cibo e salute. Dal 2007 al 2010 tali soggetti sono aumentati del 13,8% su scala nazionale, mentre nel Mezzogiorno l'incremento è stato addirittura del 74%. Fra questi, purtroppo e ancora, ci sono i giovani: il 20% delle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto ha infatti meno di 35 anni, e il 76,1% di loro non studia e non lavora. Meriteranno un minimo di attenzione, una risposta che non sia semplice propaganda da parte delle istituzioni?

E non è tutto. Mentre gli italiani stanno compilando il questionario del Censimento 2011, c'è una parte di popolazione che rischia di rimanere invisibile. Si tratta dei senza fissa dimora, prevalentemente soggetti fra i 25 e i 45 anni di età che non compileranno il modello Istat e assai difficilmente saranno individuati ai fini statistici. Che equivale al forte e concreto rischio di essere rimossi come questione sociale: non se ne parla, dunque non esistono. Gli ultimi dati ufficiali sulla loro presenza in Italia risalgono al 1999, quando la Fondazione Zancan di Padova registrò 17 mila senzatetto. Oggi, dai dati non ufficiali forniti dalle associazioni di volontariato, si stima che gli homeless italiani siano intorno ai 60 mila, in gran parte in età lavorativa. Dal 20 novembre al 20 dicembre sarà la Federazione delle persone senza dimora a tentare una nuova e più aggiornata stima, in assoluta solitudine, attraverso la campagna "Dai un volto agli invisibili" che prevede 5.500 interviste a persone identificate fra quelle che frequentano mense e dormitori. Ma, di nuovo, le autorità di cosa si occupano?

Da queste emergenze particolari si intuisce che nell'era della globalizzazione dominata dall'egoismo dell'establishment politico e finanziario, dove le varie Caste si preoccupano solo di accumulare ricchezza e di conservare i privilegi, le proteste e le ribellioni che culminano in gesti estremi sono i segni tangibili di un disagio che va ascoltato e risolto senza strumentali sottovalutazioni. In ogni caso, etichettare la protesta in quanto tale alla stregua di un atto eversivo fine a se stesso, magari solo per sfuggire alle proprie responsabilità politiche e istituzionali, è un gesto non meno criminale delle stesse violenze di piazza.

Perfino peggio della disinformazione e dell'indifferenza delle istituzioni (e delle squallide strumentalizzazioni politiche e mediatiche alla La Russa o alla Sallusti, che hanno prontamente definito tutti gli indignati come violenti e accusato le opposizioni di essere i mandanti delle violenze stesse), è il cattivo esempio che viene da certa classe dirigente che avrebbe invece il compito di spegnere ogni focolaio e di misurare le proprie sortite. E si finisce, volenti o nolenti, sempre per parlare di "lui".

Un presidente del Consiglio che, per salvare disperatamente se stesso e per nascondere le proprie colpe alla giustizia, arriva durante una delle tante conversazioni telefoniche col latitante Lavitola (ascolta l'audio dell'intercettazione) a chiamare in piazza milioni di persone incitandole alla rivoluzione, ad assaltare il palazzo di giustizia di Milano e ad assediare il quotidiano la Repubblica, è un irresponsabile che merita la galera nella stessa misura, se non di più, dei giovinastri black block. Uno indegno del ruolo che riveste ma degnissimo dell'appellativo di "Caimano".

Fortunatamente, la nostra società riesce ancora a far funzionare i propri anticorpi. Lo ha già dimostrato più volte nella sua storia anche recente. Ma adesso serve uno sforzo ulteriore, forse quello decisivo. Allora battiamoci per rimettere ogni cosa al suo posto, per rimuovere i personaggi furbi, disonesti e senza scrupoli dalle istituzioni, dalla finanza e dall'imprenditoria; valorizziamo finalmente il merito e il talento; diamo spazio e opportunità reali ai giovani; purifichiamo l'aria come ha invocato il cardinale Bagnasco e schieriamoci senza se e senza ma dalla parte del giusto. E' il momento di accelerare il cambiamento, se non vogliamo che per abbattere un sistema moralmente, socialmente ed economicamente non più sostenibile si inizi a solidarizzare anche coi metodi dei black block. Quelli veri, non le indecenti caricature che occupano abusivamente la scena pubblica del nostro Paese ormai da un ventennio.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares