I DPCM violano la riserva di legge e sfuggono al sindacato costituzionale
Il prolungamento dell’emergenza richiede il rispetto delle garanzie costituzionali e il coinvolgimento dei poteri dello Stato, in particolare del Parlamento.
Il momentaneo attenuarsi dell’emergenza sanitaria, dovuto alla diminuzione dei contagi, segna l’inizio di una nuova fase di “convivenza”, seppur forzata, con il virus (“Fase 2”). Per affrontare la fase più acuta della pandemia, il Governo (rectius, il Presidente del Consiglio), ha ricorso largamente a DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri)) al fine di tutelare la salute che, come sancito dall’art. 32 Cost., rappresenta un fondamentale diritto di ciascun individuo e un interesse preminente della collettività. Nonostante la Costituzione preveda precisi strumenti normativi, in particolare il decreto-legge (art. 77 Cost.) e il decreto legislativo (art. 76 Cost.), per far fronte a situazioni di “straordinaria necessità e urgenza”, il Presidente del Consiglio ha agito motu proprio, senza coinvolgere il Parlamento, assumendosi l’esclusiva responsabilità dei provvedimenti adottati. Il DPCM è infatti un atto amministrativo emanato nella forma di decreto ministeriale e non avente forza di legge, adottato sotto l’esclusiva responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri. Al contrario, il decreto legge ricade sotto la responsabilità collegiale del governo. Pertanto, si tratta di una fonte normativa secondaria e perciò inidonea a disciplinare la delicata materia delle libertà individuali, appartenente stricto iure al potere legislativo, che è sì esercitabile dal Governo, ma esclusivamente attraverso decreti-legge o decreti legislativi (come emerge da una lettura complessiva delle disposizioni costituzionali, in particolare dell’art. 16, laddove si afferma che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge [per l’appunto] stabilisce in via generale”). Quindi, il convulso ricorso al DPCM al quale abbiamo assistito negli ultimi mesi ha rappresentato una indebita elevazione di tale strumento, che è fonte normativa secondaria non avente forza di legge, a fonte normativa primaria al pari della legge. Un’elevazione forse giustificata dalla straordinarietà della situazione, che richiedeva interventi rapidi, ma certamente in contrasto con il dettato costituzionale. Come ha dichiarato il costituzionalista Michele Ainis in una recente intervista pubblicata su AGI, “[il DPCM] ha una forza normativa troppo debole per incidere su libertà come quella di movimento, di riunione, di culto, ecc., tutte protette dalla riserva di legge”. Inoltre, altra critica sollevabile rispetto al DPCM è che esso, a differenza del decreto-legge o del decreto legislativo, non coinvolge direttamente né il Parlamento, che non converte l’atto in legge, né il Capo dello Stato, che non emana l’atto, né tantomeno la Corte costituzionale, che non può sindacarne gli eventuali profili di incostituzionalità (tuttalpiù, il DPCM potrà fare oggetto di ricorso al giudice amministrativo). Si tratta di garanzie proprie dello Stato costituzionale che devono valere anche nelle fasi emergenziali, a maggior ragione se, come questa, si prolungano per un tempo indefinito. Una ulteriore questione riguarda l’applicazione delle sanzioni per chi trasgredisce ai divieti previsti dai DPCM. Essi invocano l’art. 650 c.p., che stabilisce che “chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito…..con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206”. Qui emerge un ulteriore dubbio circa le legittimità costituzionale dei DPCM. Essi, infatti, prescrivono sanzioni rilevanti sul piano penale, senza tuttavia essere abilitati a farlo. Ai sensi dell’art. 25 Cost. (principio di legalità), “nessuno può essere punito se non in base a una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Dalla disposizione si evince che la materia del diritto penale è espressamente riservata alla legge ordinaria (o atto avente forza di legge). Potrebbe tuttavia obiettarsi che l’art. 650, in quanto contenuto nel Codice penale, che è fonte normativa primaria, possa agire da“ombrello” per le sanzioni previste. Ma la questione non è chiara ed è tuttora oggetto di interpretazione da parte dei giuristi. Ciò che invece è chiaro è che le sanzioni penali sinora comminare esondano la competenza del provvedimento (DPCM) che le prescrive e sono di conseguenza annullabili.
Per approfondire:
- “D.p.c.m. e limitazioni delle libertà personale e di circolazione: presidi a tutela della salute pubblica o misure abnormi che indeboliscono la democrazia?”, in Diritto.it, 27 aprile 2020.
- “Per la transizione decreti-legge e leggi ordinarie”, in Il Manifesto, 29 aprile 2020.
- "I decreti del presidente del Consiglio sono deboli. Serve il Parlamento", in AGI, 21 marzo 2020.
Foto: Palazzo della Consulta, Roma
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