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Hamas-Israele: chi sta vincendo

Dopo migliaia di incursioni dell'aviazione israeliana e centinaia di razzi sparati da Gaza, dopo i morti e le distruzioni, fra la polvere delle case distrutte si va delineando con maggiore chiarezza quello che sembra essere il vero vincitore del conflitto.

Chiunque in questi giorni si sia dato un gran daffare ad interpretare l’ennesima spirale di grave violenza che attanaglia israeliani e palestinesi (sempre nella speranza che non si aggravi ancora di più con l’attacco via terra nella Striscia), si trova di fronte alla classica domanda di sempre: chi ha avuto interesse ad iniziare l’escalation di questi giorni, a partire dal 6 di novembre, e per quali motivi l’ha fatto ?

La prima interpretazione, classica quanto la domanda, è che avvicinandosi alle elezioni anticipate di gennaio, il superfalco Benjamin Netanyahu, abbia voluto impostare tutta la campagna elettorale prossima ventura sul tema “sicurezza”, patrimonio storico della destra e tema debole per una già debolissima sinistra israeliana.

In caso di grave pericolo per la nazione, l’elettorato tenuto in stato di estrema agitazione, ai limiti dell’isteria, dalla strana alleanza di fatto Likud-Hamas non ha difesa dai toni esasperati del partito di maggioranza e dei suoi sodali nella compagine governativa; e non ha difesa dalla banale realtà che se ti piovono in testa una media di due-tre missili al giorno, tutti i giorni, da una quantità di anni impressionante, lo stress ti divora. Non avendo difesa, si affida a chi sembra offrire la soluzione più decisa e “risolutiva” al problema. Cioè a quel Netanyahu che invece del problema fa parte ampiamente.

Nei fatti oltre l’85% degli ebrei israeliani approva la risposta del governo e dell’aviazione ai raid molto duri di questa settimana, anche se frena decisamente sull’intervento di terra (70% di contrari) che forse (forse) non avverrà anche per questo.

Gli avvenimenti di questi giorni mettono però in luce il comprimario speculare del premier israeliano, quell’Hamas “di lotta e di governo” che è di nuovo salito agli onori delle cronache proprio grazie alla nuova guerra di Gaza.

Oscurata per oltre un anno ormai, prima dalla primavera tunisina, poi da quella egiziana, dalla guerra civile in Libia e, adesso, da quella siriana con le sue ricadute su Libano e Turchia, Hamas ha dovuto fare le valigie in fretta e furia per andarsene da Damasco, dove era ospite di primo piano del traballante regime.

E dove era ospite per interposta persona anche di un Iran interdetto davanti ai pericolosi scricchiolii dell’alleato di ferro che gli assicurava lo sbocco sul Mediterraneo e la via privilegiata per rifornire Hezbollah di quanto necessario a mantenere alta la tensione al confine nord di Israele.

Hamas è stata oscurata perfino dalle mosse politiche di un balbettante Abu Mazen con il piattino in mano davanti al portone dell’ONU.

Poi, il 6 di novembre, uno dei mille scontri quasi quotidiani dentro o nei pressi del confine della Striscia di Gaza, ha assunto un significato che altri non avevano avuto. Una jeep militare dello stato ebraico viene centrata e salta per aria ferendo tre soldati di T'sahal, di cui uno in modo abbastanza grave.

In rapida successione si è avuta la reazione di Israele e la controreazione di Hamas, fino all’uccisione mirata del capo militare di Hamas stessa e alle vicendevoli ritorsioni, sempre più dure, che vediamo da giorni.

E Hamas è di nuovo salita sul palco dell’attenzione internazionale, oscurando anziché essere oscurata. Facendo quasi sparire dalle cronache la guerra civile in Siria che è tutt’altro che finita; facendo sparire dal panorama politico Abu Mazen e i suoi timidi tentativi di ottenere un riconoscimento internazionale che non gli arriverà mai, fino a che non si saprà chi è davvero che comanda in casa palestinese.

Hamas oggi brilla di luce propria e riceve. Riceve alti esponenti del mondi arabo e islamico: dagli egiziani, ai turchi, ai qatarini al rappresentante della Lega Araba. E’ tornato ad essere il centro nevralgico di ogni attenzione nel tentativo dell’Islam sunnita di strappare la questione palestinese a quegli sciiti che da Teheran, via Damasco ed Hezbollah, tiravano ormai da tempo anche le redini dei gruppi dirigenti della Striscia.

Oggi, grazie alla nuova guerra di Gaza, il vero vincitore sembra essere proprio Hamas, come ipotizza in un suo intelligente articolo anche Ugo Tramballi sul Sole 24ore.

Nonostante le perdite di vite umane, nonostante sia stata ovviamente messa nell’angolo dalla preponderante forza militare israeliana, nonostante non abbia ottenuto niente “sul campo” se non la vita di cinque israeliani e qualche appartamento distrutto, alla fine ha dimostrato (o sta dimostrando) che si può vincere anche perdendo.

Come d’altra parte era successo anche in Libano durante la funesta (per Israele) guerra del 2006, iniziata anche lì con un attacco di Hezbollah ad una pattuglia israeliana di confine e finita con la distruzione di mezzo paese, ma con l'esercito di Gerusalemme in grande affanno.

Qualcuno a Gaza deve aver fatto tesoro di quell’esperienza e deve aver messo in conto che qualche centinaio di vite umane sono ampiamente compensate dalla resurrezione politica in cui ormai nessuno sperava più. Al punto che ormai anche a Gaza, con tutte le titubanze del caso, si erano manifestati i primi segni di una timidissima “primavera” contestatrice. Primi scricchiolii di un regime che si legittima solo con il perenne scontro fisico con Israele a cui non ha mai riconosciuto il diritto all'esistenza, e che ora, con l'apertura del valico di Rafah sul lato egiziano del confine (ma non era un "assedio israeliano" ?) non può più nemmeno lamentare lo status di prigione all’aria aperta per il suo territorio.

Con la vittoria politica di Hamas, amplificata ben oltre la sua reale portata militare, adesso a scricchiolare (parecchio) è l’ala moderata di Abu Mazen. La divisione nei due poli politici e territoriali del popolo palestinese - vera arma vincente storica di Israele - potrebbe avvicinarsi alla fine.

Con conseguenze che potrebbero segnare l’inizio della fine del conflitto e quindi la nascita di uno stato palestinese unito ed autonomo, governato da un Hamas in versione più diplomatica grazie ai suoi nuovi sponsor arabi (e l'estromissione degli ayatollah iraniani), cui potrebbe far fronte la resurrezione (finalmente) di una sinistra pacifista israeliana. Sarebbe l'inizio del tanto agognato circolo virtuoso: fine dei lanci di missili e degli attentati terroristici da una parte e fine degli insediamenti dall'altra.

Oppure l’inizio della fine per i sogni palestinesi, trascinati nella tragedia da una dirigenza sempre più militarista e dissennata, capace di scrollarsi di dosso anche le redini dei paesi arabi moderati e di influenzare pesantemente la politica interna egiziana, fino al coinvolgimento del Cairo in uno scontro asimmetrico con Israele, che oggi però il paese delle piramidi non si può proprio permettere.

A meno che l'Iran non trovi il modo di scombinare le carte, intervenendo via Hezbollah, per recuperare gli avamposti perduti. O che Israele non decida che, sistemato per un po' il piccolo Satana di Gaza, è arrivata l'ora di affrontare quello grande di Teheran.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.82) 23 novembre 2012 01:16

    Vincitori? Vinti?

    Qui si vedono solo vite perse. Da una parte e dall’altra.
    Con la complicità della comunità internazionale. Di chi sostiene l’uno e chi l’altro (per precisi interessi) anche gettando benzina sul fuoco degli estremisti di entrambi i lati. E di chi fa come gli struzzi (perché è meglio).
    Vittoria politica, vittoria militare ...!?...
    L’umanità intera sta perdendo.
    Non vedo articoli intelligenti. Né di Tramballi, né di Oddifreddi, né di Nirenstein, né di Della Pergola, né di altri. Solo tanta, tanta ideologia.
    Che tristezza.
  • Di (---.---.---.93) 25 novembre 2012 09:41

    Capisco l’amarezza del commento di xxx.82, ma la distruzione di vite è conseguenza di atti che sono politici, prima ancora che militari. E questi atti derivano da scelte. Che vanno capite e interpretate al meglio. Perché quello che succede oggi prelude a quello che succederà domani.

    Fermo restando che chiunque sano di mente si augura che i rapporti tra israeliani e palestinesi possano diventare simili a quelli tra i popoli europei che dopo secoli e millenni di massacri reciproci sembrano aver trovato alla fine una strada possibile di convivenza pacifica e, forse, addirittura di non facile e non scontata collaborazione.

    FDP

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