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Gran Torino: Dirty Harry non abita più qui

Cos’hanno in comune Gran Torino di Clint Eastwood, in uscita oggi nelle sale, e Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin, del 1947? In apparenza i due attori/registi non potrebbero essere più lontani, sia nella dimensione temporale che nel registro espressivo. Eppure questi due film paradossalmente li avvicinano. Nel 1947 il pubblico faticò a comprendere Monsieur Verdoux, divenuto omicida seriale di vedove agiate per poter mantenere la famiglia dopo il crack del ’29. Soprattutto grande fu lo choc nel vedere l’ex Charlot – stralunato eroe degli umili e degli oppressi ai tempi del cinema muto – tramutarsi in un freddo assassino di anziane (seppur non troppo amabili) signore per bene.

Dopo l’arringa finale contro i crimini dell’umanità (cosa sono, al confronto, gli omicidi di un singolo disperato individuo?), che precede l’esecuzione della pena capitale, Verdoux si avvia all’ultima fermata del proprio destino. La macchina da presa lo riprende di spalle mentre si allontana, la stanchezza rende la camminata incerta, e per un attimo, pare quasi di rivedere l’ombra di Charlot. Il fondatore dei Cahiers du cinéma, André Bazin, scriverà che Chaplin, in quell’inquadratura, aveva filmato in diretta la morte di Charlot.
 
Clint Eastwood attore, divenne un’icona del grande schermo in due fasi: negli anni ’60, impersonando lo straniero senza nome nella “Trilogia del dollaro” di Sergio Leone, nella decade successiva, vestendo i panni di Dirty Harry, il giustiziere metropolitano della serie sull’Ispettore Callaghan, diretta da Don Siegel. Alla fine di: Ispettore Callaghan – il caso Scorpio è tuo (1971), il protagonista getta via il distintivo della polizia: non c’è posto nelle istituzioni per l’eroe solitario, a prevalere è la legge del singolo. Nelle ultime scene di Gran Torino (2009), un Eastwood chiaramente invecchiato – in un’interpretazione che potrebbe essere l’ultima di una celebrata carriera – continua invece a stringere in mano la sua medaglia dell’esercito, anche se in quest’occasione, il simbolo è macchiato di sangue.

La violenza, uno dei topos ricorrenti del suo cinema, non manca nemmeno in questo film, ma stavolta si concentra nella seconda parte, dopo un primo tempo nel quale Eastwood aveva messo in evidenza insospettate doti d’attore brillante. Per questo l’impatto della progressione finale è ancora più forte: la visione della vita rappresentata nel film è a tutto tondo, non è un western né thriller, è la nostra vita nella società occidentale di tutti i giorni. E poi in questo caso, come sempre più spesso negli ultimi 30 anni, Eastwood è anche regista e produttore della pellicola. Lo sguardo è ben più complesso e approfondito rispetto a quello fisso e mono-espressivo del suo personaggio nei film di Siegel e Leone (per altro, si tratta di ottime pellicole di genere, godibili ancora oggi): dietro la macchina da presa si trova adesso un vecchio cowboy americano quasi ottantenne, sostenitore repubblicano da sempre, che si prende il lusso di affrontare i maggiori problemi sociali contemporanei, e lo fa con una larghezza di vedute, una schiettezza e una padronanza narrativa, che di rado si trovano nei film d’essai dei registi più giovani.

Se nel pluripremiato Million dollar baby (2004), il tema trattato era quello della box femminile e soprattutto dell’eutanasia, in Gran Torino si parla di integrazione razziale, rapporto generazionale tra vecchi e giovani, e delle diverse forme di famiglia. Walt Kowalski, evidente l’origine polacca, (il nome ci rimanda anche al Kowalski di Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan, 1952, interpretato da Marlon Brando, altro celebre archetipo di virilità cinematografica), è un eroe della Guerra di Corea in pensione, vive nei sobborghi di una città del Midwest, adora la sua Gran Torino Ford del ’72, e si ritrova come vicini di casa proprio una comunità di coreani immigrati. Wolt Kowalski è un lupo solitario, ed è anche un razzista convinto. Un uomo che viene da un’altra epoca, però capace di aprirsi al nuovo. Un uomo che, superate le diffidenze e i pregiudizi radicati, saprà trovare alla fine, nei giovani vicini orientali, quasi dei figli adottivi, con i quali instaurare quel rapporto che era invece mancato con i figli naturali – come già in Million dollar baby, la famiglia ufficiale è presentata in termini negativi e caricaturali.

In questa fase di avvicinamento reciproco, è ammirevole l’equilibrio narrativo tenuto dal regista/interprete: se da un lato il carisma e la presenza scenica impediscono a Kowalski d’essere mai davvero antipatico, dall’altro, col procedere del film, l’attore si presta a situazioni di riuscita comicità e lascia intravedere il proprio vissuto interiore senza sconfinare nella retorica. L’Eastwood regista, poi, ribadisce ancora una volta quanto una solida sceneggiatura, e un’ammirevole economia espressiva dei mezzi impiegati (non c’è alcuna inquadratura ad effetto, la fotografia è appena desaturata, il set è limitato ad una strada e poco altro), siano più che sufficienti per coinvolgere lo spettatore.
 
Parlavamo sopra della violenza: latente nel primo tempo, quando Kowalski si oppone ad una gang giovanile coreana che spadroneggia nel quartiere; esplicitata nell’epilogo, quando il vecchio attore si trova a fare i conti non solo con il proprio carattere rude, abituato a rispondere da solo alle offese subìte, ma deve affrontare anche il fantasma del suo personaggio simbolo, lo stesso che ha limitato Eastwood durante buona parte del suo percorso interpretativo. Come si comporterebbe in questo caso l’Ispettore Callaghan, di fronte alle vite ingiustamente compromesse di due ragazzi incolpevoli, capaci di dargli quell’affetto negato da figli ormai lontani? Dirty Harry avrebbe pochi dubbi, prenderebbe la sua 44 magnum e sistemerebbe la questione.

Walt Kowalswi ha visto troppe vite spezzate nella guerra in Corea, sa che violenza genera violenza, non vuole rovinare i suoi giovani amici, non sa rinunciare a battersi. Stavolta però non butterà via la Croce di guerra e non farà a pistolettate col mondo, stavolta una speranza, lasciata in eredità ai suoi due immigrati coreani, troverà spazio nel finale del film. Qualcun altro tornerà a guidare la Gran Torino del ’72.
 
Chaplin nel ’47, girando Monsieur Verdoux, si lasciava andare a monologhi anarchico-populisti contro l’ingiustizia sociale (forse l’unica pecca in un film altrimenti perfetto); Clint Eastwood oggi, nel mettere in scena Gran Torino, resta fedele al suo stile: raccontare una storia, e farlo nel modo più chiaro possibile. Se in Monsieur Verdoux era Charlot a morire, in Gran Torino è Callaghan che ci saluta per sempre. Quanto a Clint Eastwood, nemmeno si pone il problema, per dedicarsi anima e corpo al prossimo progetto filmico sul post-apartheid in Sud Africa. Del resto, non ha nemmeno compiuto ottant’anni.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.98) 13 marzo 2009 14:37

    Condolianze a tutto il cinema per la morte di Callaghan, ma nel mentre godiamo di questo nuovo testosteronico eroe.
    Questo nuovo Clint Eastwood è fantastico, con un’ironia che mi fa venire persino voglia di votare repubblicano (naturalmente poi basta pensare a Lamalfa per riscoprire con piacere i confini della finzione scenica).
    Bello anche sentirlo cantare nel finale, nonostante quell’orrenda canzone sulla Gran Torino, poetica del motore davvero sincera, inno alla frizione ed alla velocità, come un moderno Marinetti di 80 anni che ci tiene a ricordarci che, nonostante abbia aperto il suo cuore alla musica, le palle le ha ancore scolpite nel marmo.
    Caro Mirarchi, quello si che è un uomo.

  • Di mauro bonaccorso (---.---.---.129) 13 marzo 2009 19:14

    Con questa dettagliata, recensione, forse non c’è neanche bisogno di andare a vedere il film.
    Complimenti.
    Mauro Bonaccorso

  • Di (---.---.---.66) 13 marzo 2009 21:57

    Grazie Mauro,
    comunque spero che andrai lo stesso!!

  • Di Linda (---.---.---.71) 16 marzo 2009 10:35
    Guarderò il film con insano piacere, come si guardano tutte le pellicole con uomini incazzosi e incazzati che in qualche modo ti sanno stupire. Solo dopo saprò dirti se credo davvero che il vecchio Harry non abiti più qui, ché faccio sempre molta fatica a lasciare andare le cose che mi hanno saputo dare un minimo di "piacere" e se tenerlo con me vorrà dire ignorare la metafora di tutta una vita dentro e fuori del set, pazienza. Non credo che a lui possa importare se ciò che ha deciso per vecchie pellicole bastarde, lontane negli anni, nell’impegno e nell’importanza sia sottilmente ignorato da chi ancora aspetta di far tardi con i suoi film d’annata.

  • Di Beps (---.---.---.96) 16 marzo 2009 20:05

    Gran recensione!!!Il film molto bello..pero’ non sono convinto del finale.. Autocelebrativo e significativo, pero’ per me non aveva troppo senso quel suicidio..ha rovinato un film che poteva essere ancor piu’ bello!!Poi chiaro che un fim non debba prescindere dalla realta’ per esser bello..ma io ho quella mentalita’ che ingegneria mi ha scolpito lentamente, che non mi permette di esser troppo libero..

    • Di Luca Mirarchi (---.---.---.42) 16 marzo 2009 20:27

      Concordo Beps,
      anzi, secondo me tutta la prima parte è meglio della seconda, prima che gli eventi precipitino, perché non aderisce a nessun genere pre-definito, è libera, davvero riuscita.
      Io credo che sia anche stata la volontà di rendere la sceneggiatura più solida, o comunque più facilmente identificabile, ad aver determinato il finale del film. Che in ogni caso, rappresenta un ottimo risultato complessivo. Saluti!!

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