• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > Giustizia e lavoro: una storia di battaglie e delusioni

Giustizia e lavoro: una storia di battaglie e delusioni

Il tema della giustizia, soprattutto in ambito lavorativo, rappresenta una delle esperienze più significative e, purtroppo, dolorose della mia vita. Non è mio costume mettere in piazza i problemi sul lavoro, ma sono stato indotto a farlo riflettendo su quanti casi come il mio possano esistere e quante altre persone siano coinvolte in medesime sentenze inique.

 

Ovviamente, sono stati omessi i nomi, per tutela della privacy dei giudici e delle persone coinvolte, datori di lavoro, preposto e colleghi che hanno testimoniato per farmi licenziare. Dopo vent’anni di servizio come unico referente e responsabile del Sud del Lazio per una società umbra che gestiva un appalto per la sosta a pagamento a Latina, mi sono trovato a scontrarmi con un sistema che sembrava progettato per ignorare la correttezza e premiare l’opportunismo.

Una carriera irreprensibile

Durante quei vent’anni, il mio ruolo comprendeva non solo la gestione degli incassi dei parcometri – un’attività delicata nota come “scassettamento” – ma anche la compilazione della prima nota cassa e il versamento integrale delle somme in banca. Le cifre annuali oscillavano tra i 500mila e il milione di euro, sempre documentate e regolari. Inoltre, intrattenevo rapporti istituzionali con almeno dieci comuni, gestendo una squadra di circa dieci ausiliari del traffico. Il comune principale, però, era quello della mia città.

L'inizio della fine

Tutto cambiò nel 2013, quando una gara d’appalto – dai contorni per me dubbi – assegnò il servizio a una società della provincia di Napoli, oggetto di numerose voci negative. Sebbene la gara dovesse garantirmi continuità lavorativa, mi resi subito conto di essere diventato un bersaglio. La nuova società iniziò a manovrare per scalzarmi dal mio ruolo, trasferendolo a un’altra persona estranea alla provincia. Mi venne imposto un "sovrintendente" con molta meno esperienza di me. Quando protestai, ricevetti una risposta emblematica da parte della società: "Lei vorrebbe a casa sua uno che comandi al posto suo". Questa frase sintetizzava bene la mentalità dominante: il comune era ormai considerato "cosa loro". Ero un dipendente full-time con uno stipendio che variava tra i 2800 e i 3500 euro al mese, ma, con il passare del tempo, il mio stipendio venne ridotto drasticamente a 1200-1300 euro e venni trattato come un ostacolo da eliminare.

L'isolamento e le denunce ignorate

Nonostante i miei tentativi di resistere, trovai di fronte a me un muro di gomma. Sindacati, capigruppo politici, magistratura: nessuno sembrava disposto ad ascoltarmi. Presentai un esposto, su consiglio del mio avvocato, riguardo alle curiose coincidenze di nuove assunzioni con particolari legami familiari e politiche aziendali discutibili. La risposta fu una sorta di damnatio memoriae: non solo il mio esposto fu ignorato, ma le poche testate non allineate che avevano cercato di darmi una mano venivano accuratamente derise, mentre i giornali "in" della città osservavano tutto con malcelata alterigia.

Nel frattempo, la società si dimostrò inadempiente, accumulando omessi versamenti di centinaia di migliaia di euro nelle casse comunali. Il comune, dopo sei anni, trasferì l’appalto senza alcuna gara a una ditta partecipata regionale. Ironia della sorte, il sindaco venne arrestato, e il tutto passò nelle mani prima di un commissario prefettizio e poi di un sindaco di sinistra. I miei appelli, articoli, ricorsi e denunce venivano accolti con indifferenza e, sul posto di lavoro, venivo accuratamente ignorato ed osteggiato.

La degradazione e il licenziamento

Mi sembrava di essere diventato un personaggio farsesco, come Totò: uno stupido che nessuno prendeva sul serio. La nuova ditta, considerata “credibile”, vinse una successiva gara d’appalto. Per me, fu l’inizio della fine. Vennero proposte iniziative inaccettabili per degradare la mia posizione, tutte con l’avallo dei sindacati. La più clamorosa fu una riunione ad hoc per trasformare tutti i dipendenti in part-time, una manovra che colpiva esclusivamente me, unico dipendente full-time.

Alla fine, mi ridussero unilateralmente l’orario di lavoro per presentarmi come una risorsa superflua. Feci ricorso, ma il giudice – un ultrasettantenne prossimo alla pensione – mi disse: “Non è contento? Lavora la metà e prende il doppio”. Spiegai che questa decisione era l’anticamera del licenziamento, ma non ottenni alcun risultato. Poco dopo, arrivò il licenziamento, motivato da uno “stato di difficoltà aziendale”. Ero diventato il capro espiatorio di un’azienda con 130 dipendenti.

Intimidazioni e sabotaggi

Durante il lavoro, fui vittima di continui rimproveri e intimidazioni. In un caso, un’improvvisa frenata mi fece temere per la mia incolumità, episodio osservato anche da un poliziotto fuori servizio. In un’altra occasione, venni redarguito così violentemente che finii al pronto soccorso per una crisi ipertensiva, ovviamente con testimoni dell'accaduto, Questo evento fu strumentalizzato dall’azienda per emettere un ulteriore richiamo disciplinare.

La battaglia legale

I miei ricorsi giudiziari si scontrarono con un sistema apparentemente ostile. Ho il timore che il cosiddetto processo mediatico si manifesti anche quando ci si scontra con i cosiddetti poteri forti. Una giudice, NON MI VOLLE AMMETTERE I TESTIMONI, poi durante l’udienza, si rivolse a me canticchiando “La vie en rose” e dimostrò una confidenza sospetta con l’avvocato della società. Quando l’azienda propose un risarcimento ridicolo di 8000 euro, poi negato, la giudice accolse con favore il loro successivo ritiro dell’offerta. La sentenza finale respinse tutte le mie richieste, ricalcando fedelmente le tesi dell’azienda. Queste decisioni sembrano fare da battistrada ai poteri forti, ignorando la tutela che dovrebbe spettare alla parte più debole.

Anche in appello, la situazione non cambiò. Il nuovo giudice, che aveva lavorato nella mia città, confermò la sentenza precedente, arrivando persino a sbagliare il mio cognome per ben quattro volte nella sentenza. Mi sentivo invisibile, un uomo senza voce in un sistema progettato per schiacciarmi.

Conclusione

Questa è la mia storia: una battaglia contro un sistema che sembra premiare i forti e dimenticare i giusti. Un racconto di imprevisti e batoste, ma anche di dignità e determinazione. Una storia che, forse, non troverà mai giustizia.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità