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Frammenti di geografie immaginarie: New York

di Adolfo Fattori 

Gianluca Vassallo, New York e altre metafore, SOTER, San Teodoro, 2011, € 25,00, pp. 46

Il busto di un manichino che “guarda” verso l’esterno, attraverso le vetrine curve di una boutique, forse alla moda, che insistono all’angolo di una strada – anonima – incorniciate da un muro di mattoni: questa è la prima immagine in cui ci imbattiamo (p. 11) aprendo il libro/album di Gianluca Vassallo, “diario” del suo viaggio nella “Grande mela”.

Siamo dalle parti – tolto il bianco-e-nero – di Edward Hopper, e delle solitudini metropolitane da lui così ben celebrate. Anzi, siamo ad un livello successivo, conseguente, quello della trasformazione in simulacri, esseri inanimati e fungibili. Così, anche nelle fotografie che seguono, laddove scorgiamo soggetti umani, ne percepiamo la solitudine e il senso di disincantata e rassegnata consapevolezza della immutabilità del futuro che li attende. Di una routine scontata e prevedibile. Fatidica.
 
Niente del glamour di Sex and the City, di quella New York scintillante e futile che la serie Tv condivide con i cosiddetti “film del primo appuntamento”, quelli in cui vengono messe in scena vicende – improbabili – di persone che si cercano dopo essersi lasciate per riversarsi addosso rancori e rivendicazioni destinate a chiudersi con un lieto fine scontato – rappresentazioni di una autoterapia predestinata performata per procura, come a saltare gli ostacoli futuri di una qualsiasi relazione, pronti per andare poi a cena, e all’appuntamento successivo andare a letto insieme…
 
Ecco, è piuttosto la New York di Paul Auster, quella che lo scrittore ha trasferito nella sceneggiatura di Smoke di Wayne Wang (1995), ad esempio, storia di solitudini che si incrociano, ma anche di riflessione e curiosità etnologiche, proprio come quelle di ogni fotografo ispirato. O la città avventurosa de I guerrieri della notte (Hill, 1979),mitico western metropolitano, esplorazione adrenalinica e affettuosa delle notti della New York marginale. O ancora, anche se con qualche forzatura immaginativa, andando ancor più indietro nel tempo quella di Trash-I rifiuti di New York, il film prodotto da Andy Warhol (Morissey, 1970)che ci mostra gli squallidi interni che stanno dietro le finestre dei quartieri bassi della città e l’interiorità degradata dei cascami del movimento hippie.
 
Un doppio (triplo? multiplo?) volto, naturalmente: New York è comunque là “… città capace di contenerne tante altre, come tante e tanto diverse tra loro le storie, come i volti, che vi si mescolano […] mentre tutto sembra correre e disperdersi in un flusso continuo, il volto e lo sguardo di un altro può diventare lo specchio nel quale riflettere i propri desideri…”, come scrive Maria D’Ambrosio introducendo le immagini del volume (p. 5).
Luogo dell’immaginazione, sicuramente: scenografia mutevole e poliedrica di quella metafisica dell’immaginario a cui ci ha educato il Novecento, quello della metropoli, della fabbrica, del cinema.
 
Città di fiordi di cemento, acciaio e vetro, prototipo di urbanizzazione “verticale” (pp. 25, 27), come nelle previsioni delle megalopoli future degli architetti e urbanisti – e dei disegnatori di fumetti di fantascienza – fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, cui si ispirano le metropoli di Batman, Superman, e degli altri supereroi, in opposizione all’altro polo della geografia dell’immaginario, Los Angeles, città di ombre (Altieri, 2006), la “città di quarzo”, come l’ha definita Mike Davis (1999) solare e oscura, come in Mulholland Drive di David Lynch (2001), “orizzontale” e futura, come nel Blade Runner di Ridley Scott (1982)…
 
Risultato di uno sviluppo imprevedibile, anche solo alla metà dell’Ottocento. Basta rileggere Edgar Allan Poe, e il suo L’uomo della folla:
“La via era stretta e lunga […] i passanti si ridussero, a grado a grado, alla quantità approssimativa della gente che si vede di solito in Broadway, presso il parco, a mezzogiorno; tanto grande è la differenza tra la folla londinese e quella della più frequentata città americana.”[1] (Poe, 1974, p. 270).
 
La “più frequentata città americana”, il cuore di New York, alla metà del XIX secolo in confronto a Londra – la città di cui scrive Poe – è solo una cittadina di provincia. Ma è il luogo di origine dell’uomo della folla, per lo scrittore americano il prototipo di criminale, per noi, abitanti del Novecento, dell’uomo massa che popolerà le nostre città – e di cui, agli occhi degli altri, facciamo parte anche noi, come i personaggi colti nelle foto raccolte nel libro di Gianluca Vassallo.
 
La New York di Vassallo è però anche la meta di un viaggio – esistenziale e formativo come tutti i viaggi – ed è quindi una città nuova, intatta, aperta ad occhi almeno in parte “innocenti”, privi di memoria, se non quella dell’immaginazione. E ci offre quindi un panorama, un setting nuovo, quello del viaggiatore incantato dal suo stesso viaggio (di cui fra l’altro Vassallo dà conto in un video, La nausea, che seppur separato, può fare da introduzione virtuale al suo libro) che, raggiunta la meta, si immerge in una dimensione ancora diversa, ed esplora il nuovo scenario che gli si apre davanti.
 
E ne sviluppa una sua memoria, unica, individualizzata – imprevedibile.
E non solo perché ognuno di noi parte da una biografia unica – che gli fornisce un punto di vista irripetibile – ma perché proprio per questo ciò che sceglierà per nutrire la sua biografia e identità sarà altrettanto irriducibile a quella altrui.
Può però comunicarla agli altri – attraverso parole ed immagini: foto, ad esempio…
 
Può coglierne frammenti, in ogni caso, tasselli, eventualità: allusioni al tutto di cui fanno parte – che in gran parte saranno un prodotto unico: del caso, per quella parte di reale che un itinerario può coprire; delle scelte che comunque, fra le tante opportunità offerte, si proporranno alle traiettorie dello sguardo del viaggiatore.
 
Il traguardo di un viaggio è il punto di partenza di un viaggio ulteriore. Così anche l’arrivo di Gianluca Vassallo a New York diventa l’inizio di un altro percorso, che attraverso le immagini ci fa intravvedere – e immaginare – vite: quelle delle persone che riprende, che blocca in un attimo della loro esistenza, sospendendole nel tempo, e quelle di coloro che passeranno in futuro, o che sono già passate per gli stessi posti, siederanno o si sono accomodate sulle stesse panchine, negli stessi bar, sugli stessi sedili di metropolitana.
Avviando così – anche noi – innescati dalle immagini, un nostro viaggio immaginativo, che coinvolge noi stessi e gli uomini e le donne che vediamo in foto, di cui possiamo immaginare passati e futuri possibili, plausibili o meno, banali, drammatici, felici.
 
Così il viaggio del fotografo – interiore quanto geografico – diventa un’ipotesi di viaggio per ognuno di noi, e il viaggio esistenziale che ciascuno dei “lettori” può attribuire ai soggetti delle immagini che l’artista ha scelto fra le tante che ha scattato. Vicende immaginarie, forse, tutti squarci delle interrogazioni sulla condizione umana, delle esplorazioni della sua fragilità.
 
Altieri Alan D., Città di ombre, TEA, Milano, 2006.
Davis M., Città di quarzo, Manifestolibri, Roma, 1999.
Hill W., I guerrieri della notte, Usa, 1979.
Lynch D., Mulholland Drive, Usa, 2001.
Morissey P., Trash-I rifiuti di New York, Usa, 1970.
Poe E. Allan, Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze, 1974.
Scott, R., Blade Runner, Usa, 1982.
Wang W., Smoke, Usa, 1995.
 
 


[1] Corsivo mio.
 

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