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Filosofia e amori e felicità e dolori

"Sulla felicità e sul dolore" è l’opera di un genio della filosofia realista di orientamento pessimista: Arthur Schopenhauer (www.pianobedizioni.com, 2010).

Filosofia e amori e felicità e dolori

Il filosofo tedesco considera la felicità come un miraggio e il libro è una preziosa miniera ricca di pepite di saggezza, “poiché per considerare ciò che può succedere è necessario l’intelletto, mentre per conoscere ciò che è già successo bastano i sensi”.

Nessuno può negare che la vita di ogni individuo “è una lotta continua, non solo metaforicamente, con il bisogno e la noia, ma anche realmente, con gli altri… a tormentare la nostra esistenza contribuisce anche il tempo... Proprio come il nostro corpo esploderebbe se gli fosse tolta la pressione dell’atmosfera, così, se la pressione del bisogno, della fatica, degli sforzi insopportabili e vani fosse tolta alla vita degli uomini, la loro arroganza aumenterebbe, se non fino a farli scoppiare, certamente fino a renderli folli [come avviene per molti politici]. Si potrebbe addirittura sostenere che l’uomo ha bisogno di una certa dose di preoccupazioni, sofferenze o necessità; proprio come la nave – per procedere ferma e dritta – ha bisogno della sua zavorra” (p. 9).

Comunque “la consolazione più efficace in ogni disgrazia, in ogni dolore, è di guardare chi è più infelice di noi, e questo può farlo chiunque”. E siccome ciò che non accade in un anno può accadere in un attimo non “dobbiamo lasciarci andare all’entusiasmo più sfrenato o indulgere al lamento… È accaduto a tutti almeno una volta nella vita, di piangere per quello che si è poi scoperto essere il loro vero e maggiore bene, o di rallegrarsi di qualcosa che si è poi rivelato fonte di sofferenza” (p. 42). E bisogna rimanere sereni davanti a ogni sventura e considerare le disgrazie come una piccola parte di ciò che potrebbe accadere in questo mondo pieno di problemi e di guai.

Dopotutto la sfortuna in amore di questo scomodo genio giustifica i suoi pregiudizi, la sua filosofia e la sua misoginia. Il grande filosofo considerava le donne come esseri che approfittano della loro breve giovinezza per accalappiare gli uomini e garantirsi una vecchiaia sicura, anche se indubbiamente la loro funzione di mettere al mondo dei figli le rende più attente ai bisogni della specie, rispetto a quelli individuali: “Senza la donna l’infanzia sarebbe privata della sicurezza, la gioventù del piacere e la fine della consolazione” (Jouy). E forse Schopenhauer colpiva al cuore la verità quando affermava che le società che eccedono nella venerazione per il sesso femminile rendono “le donne arroganti e sfacciate, tanto che talvolta ci vengono in mente le scimmie sacre di Benares, le quali, consce della propria santità e inviolabilità, si permettono ogni cosa” (p. 99).

In effetti tutti sanno che le donne preferiscono compagni belli, ricchi, deboli e stronzi. Quando gli uomini sono belli, ricchi e deboli, comandano le donne e quando gli uomini sono stronzi e belli o pieni di soldi comandano solo le donne più furbe. Quelle giovani affinano l’arte amatoria e quelle vecchie l’arte oratoria. Le più intelligenti imparano come fare attraverso l’arte di ascoltare.

Inoltre per il filosofo il matrimonio non è vantaggioso per gli uomini: “dove regna la monogamia, sposarsi significa dividere a metà i propri diritti e raddoppiare i doveri… uomini intelligenti e prudenti molto spesso non si decidono a fare un sacrificio così grande e ad accettare un patto così iniquo. Presso i popoli poligamici ogni donna trova chi pensa al suo mantenimento; mentre, invece, presso i popoli monogamici il numero delle donne sposate è limitato (p. 101). In effetti nelle società occidentali stanno aumentando le donne divorziate e attempate senza “partner ufficiali”. Così in amore e “in questo mondo si va avanti con la punta della spada e si muore con l’arma in mano” (Voltaire). Ma bisogna anche tenere presente la consolazione dell’inevitabilità del destino: “Tutto ciò che accade, dalle cose più grandi alle più piccole, accade necessariamente”.

Nel libro viene riportata anche l’opinione di Aristotele: “la felicità consiste nell’esercitare le proprie facoltà in lavori capaci di risultato” e in genere appartiene a chi basta a se stesso. I bisogni, la necessità e il dolore ci sottraggono gran parte della vita, “e anche chi riesce a sfuggire è atteso dalla noia in agguato… e la stupidità ha l’ultima parola” (p. 59). Infatti la natura ha dotato l’uomo di forze per lottare contro le avversità e “Quando però la battaglia gli concede un attimo di tregua, ecco che le forze disoccupate diventano un peso; e allora deve giocarci, impiegarle senza uno scopo, poiché altrimenti rischia di esporsi all’altra fonte dell’infelicità umana: la noia” (p. 61).

In conclusione: “Non sono le cose a influire sull’animo umano, ma le convinzioni che noi abbiamo di esse” (Epitteto) e “in generale, i nove decimi della nostra felicità si fondano esclusivamente sulla salute… Ne consegue che la più grande idiozia è quella di sacrificare la propria salute per qualsiasi cosa, che sia il guadagno, la carriera, l’erudizione, la gloria o, quel che è peggio, per i godimenti del corpo” (p. 53). E l’ambizione danneggia la salute e “diventa in mille e spesso assurde forme la mèta di quasi tutte le aspirazioni che vanno al di là del piacere e del dolore fisico”. In definitiva “la felicità è desiderare quello che si ha” (Ennio Flaiano).

Quindi bisogna “Riflettere, riflettere, riflettere”. È questo il motto del cittadino del mondo. Perché quello che giova a uno non giova a tutti e “la sorte dà le carte e noi ci giochiamo”. Inoltre, “Se anche espiassimo le nostre malvagità soltanto nell’altro mondo, è però in questo che paghiamo lo scotto delle nostre sciocchezze, sebbene ogni tanto possa accadere di farla franca” (p. 45).

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