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Elezioni: l’Italia vira a Destra

Il tema della “sicurezza” si riaffaccia prepotentemente sul mercato delle analisi postelettorali.

Alessandro Gilioli è chiarissimo nel porre il problema riferendosi a dati precisi:

«C'è, semplificando, una richiesta di maggior sicurezza economica (prima preoccupazione degli italiani, Ipsos) relativa quindi al reddito. E c'è una richiesta di maggior sicurezza rispetto all'immigrazione (seconda preoccupazione degli italiani, sempre Ipsos)».

E da qui trae le sue conclusioni: «Il Movimento 5 Stelle ha puntato tutto sulla prima (garanzia di reddito) mantenendo un atteggiamento ambiguo sulla seconda (migranti). Salvini ha fatto leva sulla seconda (migranti) mantenendo un atteggiamento ambiguo sulla prima (via la Fornero, ma anche flat tax liberista). Il Pd invece è stato percepito come il partito che su entrambi i temi stava dalla parte dell'insicurezza, della libera competizione».

Quindi: «Fine della storia: il bipolarismo uscito dalle urne è stato tra chi proponeva più sicurezza sul fronte reddito e chi proponeva più sicurezza sul fronte migranti».

Nulla da dire. Il voto delle periferie e dell’Italia “profonda” si è diviso equamente sui due fronti securitari mentre chi, a sinistra, ha condiviso la necessità di riforme economiche progressiste, ma non l'isteria sui migranti, non è stato degnato di uno sguardo.

Né LeU penalizzato dalle scelte molto tardive di un personale politico in gran parte corresponsabile delle scelte di governo, né tantomeno Potere al Popolo che con le ‘proposte’ marxiste tradizionali non ha raggiunto nemmeno la metà delle percentuali dei vari raggruppamenti temporanei a cui Rifondazione Comunista, presente in PaP, ha partecipatonelle tornate elettorali degli ultimi anni.

L’insicurezza ha quindi prevalso e lo ha fatto spostando tutto l’arco politico a destra dove, da sempre, c’è il nido delle politiche securitarie.

Soprattutto quando di sicurezza non ce n’é affatto bisogno: prova ne sia l’allarme criminalità quando tutti i dati ne indicano una decisa flessione o l'allarme invasione, anch’esso ben poco credibile se l’indice della percezione dell’immigrazione, ce ne informa Limes, racconta che in Italia si immaginano gli immigrati cinque volte più numerosi di quanto non siano in realtà.

Potremmo parlare di stati allucinatori, anche se niente a che vedere con l’isteria dei polacchi che fantasticano una presenza di migranti 70 (settanta!) volte più grande del reale, ma nemmeno con la più pacata reazione francese che si limita, nella mente, a triplicarne la presenza. Percezione alterata o - chiamiamo le cose con il loro nome - manipolazione pianificata?

Che l’insicurezza abbia motivazioni economiche è invece difficile da contestare: la crisi del 2008 è stata più volte paragonata a quella del 1929, come si poteva pensare che non lasciasse una scia di sangue e privazioni? È logico che a pagarne le conseguenze sia stato il governo in carica, sia per le proprie scelte non proprio popolari sia per le imposizioni esterne che ha dovuto subire dall'Europa o dal mercato (leggi spread).

In tutto ciò vive comunque una contrapposizione narrativa.

Da una parte il blocco Sud-M5S parla di «850 miliardi di euro» sottratti dallo Stato unitario al Meridione. Dall’altra la costante leghista che da sempre chiede «risorse al Nord», nonostante la mutazione antropologica che l’ha portata da “prima i padani” a “prima gli italiani”.

Insomma da qualunque parte lo si guardi il problema è sempre “Roma ladrona” - cioè lo Stato centrale - che ruberebbe soldi a una parte del paese per trasferirla all’altra oppure viceversa. Dipende dall’aedo di turno.

L’unica annotazione che parli del PD, il grande sconfitto di questa tornata, evidenzia che quello (cioè il governo) su «entrambi i temi stava dalla parte dell'insicurezza, della libera competizione».

Ma davvero è tutto qui? Davvero tutto si risolve, a parte l’isteria xenofoba, nel quantum delle politiche economiche pure e semplici?

Qualche dubbio viene anche solo a leggere, oltre alla cartina colorata del paese post-voto, anche le parole dello scrittore Pino Aprile: «Il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente quello dell’ex regno delle Due Sicilie». Lo stesso fa Nadia Urbinati su Left: «come nell’Italia prerisorgimentale le Italie del dopo 4 marzo 2018 sono più di una…» o Claudio Paudice sull'Huffington Post: «Perché il Movimento 5 Stelle è diventato il Partito delle Due Sicilie».

Curiosamente proprio quelli che hanno adottato la terminologia rivoluzionaria - i “cittadini” - sono portati simbolicamente a segnare con il proprio colore l’Italia preunitaria, quella borbonica.

Ma se è vero che la suddivisione tipica del Novecento - quella dello storico scontro tra destra e sinistra - esce completamente offuscata da queste elezioni, è chiaro che la nuova suddivisione politica barcolla su una incerta linea di faglia tra due categorie - ‘noi’ e ‘loro’ - che qualcuno legge in senso etnocentrico dove il ‘noi’ indica un popolo, non una classe sociale, mentre qualcun altro vi legge ancor più genericamente un conflitto tra fuoricasta ed entrocasta - nemmeno si fosse in una società induista - cioè i privilegiati descritti come coloro che hanno soldi, potere, amicizie, posizione, opportunità, prospettive, carriera, lavoro, cultura, futuro, casa, auto (anche blu) e così via enumerando a piacere dell’enumerante che è, per definizione, l’anticasta duro e puro. Qualsiasi sia la sua reale situazione socio-economica.

Ma nel termine casta - è opportuno ricordarlo per non confondersi - c'entra di tutto, i potenti, le banche, le lobbies, gli avversari politici così come i giornalisti non proni alle parole d'ordine dogmatiche del Movimento e i semplici critici da social: tutti etichettati con il vigoroso "siete niente, dovete sparire".

La domanda si impone: quanto ci metterà il giallo a virare in blu anche nel Meridione?

Il sospetto viene se si guarda alle circoscrizioni di Torino, di Livorno o anche di Roma, i fiori all’occhiello delle amministrazioni a Cinquestelle: ben poco di giallo è rimasto la mattina dopo il voto. Al contrario del blu leghista, che resiste da anni al potere nel Lombardo-Veneto, il Movimento di Grillo vince finché resta sulla cresta dell’onda urlata, protestataria, anticasta e vaffanculista. Una volta messo alla prova del governo, foss'anche solo urbano, mostra la corda con una velocità sorprendente.

Dovrà rimanere sempre all’attacco contro tutti i nemici di una "casta" purchessia, anche fosse fantasticata o inventata, per restare in sella in una situazione in cui la destra leghista - che propone un programma economico quasi sovrapponibile (euroscetticismo, abolizione Fornero, Jobs Act eccetera) ed è avvantaggiata da tutte le ambiguità del M5S sui temi etici (immigrazione, ius soli, vaccini e così via) - potrebbe sfruttarne anche le debolezze gestionali.

È un situazione che si riesce a decifrare solo con molta difficoltà. Al punto che c'è chi introduce elementi di riflessione ben diversi.

Il blogger Enrico Sola su Il Post ha usato il termine “shift di paradigma” per indicare quello che appare palesemente come il click di un interruttore che fa fare un salto qualitativo oltre che quantitativo, in questa nuova Terza Repubblica. E ci ricorda: «Non siamo soli: è qualcosa che sta succedendo, in modo più sfumato (qui in Italia ci teniamo ad avere il primato delle brutture), in tutto l’Occidente, dove crollano le sinistre e si impongono le destre xenofobe e sovraniste e i populismi».

Già, difficile capire come mai anche in Germania - investita dalla stessa crisi che abbiamo avuto noi, ma uscitane con una disoccupazione risibile, un’economia florida, un debito contenuto, un welfare che avercelo, un surplus commerciale da urlo e un allarme migrazione controbattuto colpo su colpo dal governo stesso - l’attacco alla realtà politica di governo si stia facendo sentire mettendo alla prova sia la SPD che la stessa Grosse Koalition. E perfino nell’algido nord di tanta socialdemocrazia si sentono brutti scricchiolii.

Solo Macron è riuscito per ora a creare in Francia un "noi" repubblicano capace di contrastare una destra lepenista filoputiniana in via di maquillage.

In Italia, più rapidamente che altrove, come non ha mancato di sottolineare l’ex superconsigliere di Trump Steve Bannon, si sta invece facendo un salto a pié pari fuori dal Novecento, il secolo breve dei totalitarismi e delle grandi utopie, ma anche della vittoria del liberalismo e, su scala ancor più vasta - fino a comprendere la Cina popolare - del liberismo economico con conseguente crollo ai minimi storici dell’indice di povertà assoluta globale.

È proprio uno dei termini usati - liberalismo - che è finito nel mirino dei cecchini in tutto il mondo: come dimenticare l’attacco esplicito dello stesso Bannon, che arrivò a definirsi “leninista” per dire del suo preciso programma politico di abbattimento del sistema dei partiti, senza distinguere tra democratici e repubblicani? E come non ricordare la via filosofica indicata da Alexandr Dugin, il “rasputin” di Putin - tanto amata dai neofascisti di mezzo mondo - che in odio proprio al liberalismo propone un superamento che in realtà è un ritorno al tradizionalissimo cesaropapismo russo rivisitato in chiave neoheideggeriana? O, ancora, il violentissimo regime islamista neo-ottomano di Recep Tayyip Erdogan che impone a una Turchia timidamente moderna un brusco risveglio nel proprio medioevo integralista? 

Peccato che la critica al liberalismo non venga da una efficace sinistra trasformativa e progressista, ma dalla destra reazionaria più pericolosa dai tempi che potete immaginare.

Davvero non era prevedibile?

Davvero la vittoria di Trump e della Brexit erano state prese per l'incomprensibile hobby di quei mattacchioni di anglosassoni? Davvero le classi politiche dominanti nei quattro paesi di Visegràd, con le loro manifestazioni orgogliosamente oscurantiste dai tratti poco meno che neonazisti, sono state considerate solo una congrega di burloni alcolizzati da rieducare con un po' di santa pazienza? Davvero non si è visto il programma lucido, pianificato, articolato e ideologicamente molto attrezzato che stava spingendo il mondo nelle braccia del totalitarismo prossimo venturo? Davvero si è stati così miopi da non capire che Dugin, De Benoist, Mutti, Soral, Bannon, Spencer, Parvulesco, e prima ancora Evola o Guénon, pianificavano di spingere tutti noi fuori da un sistema democratico attorno al quale ci si doveva arroccare a difesa?

Ma se non capisce di che pasta è fatto il suo nemico né quali sono le priorità in una precisa contingenza storica, la sinistra politica non è la soluzione del problema, è il problema.

In questo quadro complessivo di attacco alla modernità - che di sicuro i suoi demeriti ce li ha, a partire dal neoliberismo non regolamentato per arrivare al collasso di una cultura incapace di riconoscere i nuovi sentieri dell'umano - trova luogo e spazio il fantasyland delle soluzioni magiche, istantanee, facili e demenziali come pensare che davvero si possano rimpatriare cinquecentomila migranti “a casa loro” quando non si ha nemmeno la certezza di quale sia quella loro casa (e comunque se non li vogliono indietro non li sbarchi né da un aereo né da una nave, né con le buone né con le cattive, non ci avevate pensato?); o l’assurdo dibattito preilluministico sui vaccini e sulla deregulation in merito, prevista nei programmi di entrambi i partiti vincitori.

In sintesi, chiosa Enrico Sola «il popolo italiano, nella sua stragrande maggioranza, vuole più destra. E la vuole populista, rabbiosa, xenofoba, antiscientifica, bigotta e vogliosa di menare le mani». E se tentassimo di resistere «finiremmo come i “liberatori” antiborbonici, presi a roncolate a Sapri dai contadini stessi che volevano liberare».

Tornano, di nuovo, i Borboni, curiosi comprimari di una contemporaneità tutta da interpretare.

Allora la sconfitta della sinistra storica non sarebbe tanto da addebitare (senza voler peraltro praticare sconti gratuiti) a singoli personaggi malvisti di Roma o Firenze o Bruxelles, ma allo switch storico, ideologico, antropologico che ha cambiato la realtà politica: «non c’era niente, né una riforma, né un’azione unitaria, né un programma che avrebbe potuto fermare questo evento epocale», sostiene Sola, specificando che nessuna delle tante cose che avrebbero potuto-dovuto essere fatte (ma che comunque non sono state fatte), spiegherebbe in modo esaustivo la sconfitta epocale della sinistra politica. Nonostante ci sia chi si rallegra per la fine del cattocomunismo, immaginando forse un qualche riscatto identitario di là da venire, la realtà è molto più drammatica.

Oggi sono cadute tutte le opzioni di sinistra contemporaneamente, da quelle più radicali a quelle più salottiere.

Sostanzialmente sulla stessa linea Marco Revelli sul Manifesto che titola: «La sinistra se n’è andata da sé».

«Si discuterà a lungo - scrive - degli errori compiuti che pure ci sono stati (in particolare parla di LeU): delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vede la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo».

E mentre Minniti realisticamente parla di «rischio di scomparsa per il PD» - basterebbe, aggiungo, che Lega e M5S si accordassero per una nuova legge elettorale a maggioritario secco all'inglese e qualsiasi cosa dal residuo sapore di sinistra evaporerebbe come neve al sole scomparendo forse per decenni dal panorama istituzionale - adesso è tutto un fiorire di articoli che propongono invece di ricostruire la sinistra o rifondarla o ripensarla o ridiscuterla.

Ecco, con calma, bisogna ricominciare fin dalle origini più lontane, cercando nei minimi anfratti senza trascurare nulla, lasciando perdere ogni sciocchezza rivendicativa, ogni nostalgico ripescaggio, lavorando senza scrupoli per trovare il motivo di un fallimento politico.

Perché di fallimento si tratta, non di sconfitta.

Ed è da questa consapevolezza che bisogna ripartire. Questo epilogo bisogna saper accettare «...è un epilogo da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, sognare forse...».

Qualcosa poi spunterà fuori.

 

 

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