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Economia: verso il futuro senza esitazioni

1. Anch’io sono rimasto (piacevolmente) sorpreso nel vedere che, pur con linguaggio tutto diverso, un fondo di gestione finanziaria (forse il più grande del mondo) come Pimco ha nella sostanza opinioni vicine alle nostre (in certi casi oserei dire coincidenti, sempre tenendo conto del punto di vista necessariamente differente). Si tenga presente che, quando i documenti di questo Fondo parlano di prospettive o tendenze secolari, si riferiscono ai prossimi cinque anni (infatti arrivano fino al 2015); mentre le possibili (non certe) tendenze per periodi di alcuni decenni vengono dette “supersecolari”. In ogni caso, nel giudicare la situazione del prossimo quinquennio, si cerca di interpretare alcune tendenze di fondo del sistema globale; e di questo bisogna complimentarsi perché evidentemente i vertici del Fondo sanno che, per non essere semplici avventuristi in cerca di guadagni momentanei (per loro) e di successivi gravi dissesti (per altri), è indispensabile afferrare le direttrici di massima della nuova epoca in cui si sta entrando. La sensazione di un “cambiamento del mondo” è ormai patrimonio comune – pur da punti di vista assai diversi – di chiunque abbia qualcosa in più di semplice crusca nel cranio.

 
Tuttavia, tale cambiamento – che avrà certo suoi svolgimenti specifici come sempre avviene con il succedersi del “tempo storico” – possiede pure caratteristiche che richiamano eventi del passato. Alcune sono evidenti, e sono i punti di maggior contatto tra le analisi finanziarie del gruppo in oggetto e le nostre “intuizioni”, che cerchiamo di portare, nei limiti delle nostre capacità, ad una maggior consapevolezza anche teorica. Entriamo in un’epoca di profonda riconfigurazione dei rapporti tra i vari sistemi economico-sociali; ancora visti, e lo saranno a lungo, come paesi, cioè come quelle che denomino formazioni particolari. Patetica è ormai l’idea del superamento degli Stati-nazione. In effetti, altro punto di contatto delle nostre analisi con quelle di Pimco è la considerazione che crescerà nell’epoca a venire la funzione di questi Stati.
Si è allora spinti a riconoscere che la crisi innestatasi nel 2008 – per quanto si possa pure considerare la più grave dopo quella del 1929 – ha però caratteri (e cause) differenti da questa. Essa assomiglia sempre più – senza tuttavia esagerare in parallelismi impropri – a quella di fine ottocento. Ed è una crisi di “crescita” (economica) non eguale per tutti – le cosiddette “economie emergenti” (Cina, India, ecc.) continuano ad avanzare con ritmi tuttora molto buoni – e soprattutto implicante profonde trasformazioni sociali e alterazioni di rapporti (tra paesi e tra settori all’interno dei paesi). Si hanno quindi fenomeni di sviluppo, se quest’ultimo non va limitato al solo andamento degli indici economici; o anche cosiddetti sociali, come ad esempio il tasso di disoccupazione, ma che di fatto rinviano sempre all’economia, alla produttività, ecc. Soprattutto, però, si può parlare di sviluppo ineguale, che riguarda la riconfigurazione dei rapporti all’interno del sistema (formazione) mondiale; e dunque di un mutamento dei rapporti di forza, in particolare fra quei paesi che assurgono al livello di potenze.
Il mutamento dei rapporti in questione è causa ed effetto – nel senso che ad un certo punto si crea una relazione circolare cumulativa tra cause ed effetti – del multipolarismo (policentrismo) in fase (epoca) di affermazione. Il frammentarsi della formazione mondiale in tanti poli significa accentuazione del loro contrasto (lotta tra potenze); lo sviluppo ineguale è inscindibile da tale lotta. La sedicente globalizzazione – quella che alcuni distruttori di Marx, nel mentre fingono di incensarlo, vogliono far credere sia una sua brillante previsione (povero Marx, quanti cretini e farabutti al suo seguito!) – mostra in pieno la corda. Il mondo si va dividendo nelle classiche “aree d’influenza” tra potenze; influenza che è più o meno forte (con aree quindi più o meno estese) a seconda dello svolgersi della lotta tra queste e del loro tumultuoso sviluppo ineguale.
 
Vari paesi (soprattutto quelli considerati più avanzati) si incontrano in frequenti riunioni internazionali, affermando di voler risolvere insieme i problemi della crisi, senza ricorrere a pratiche protezionistiche, considerate dannose per tutti. Tale atteggiamento è perfino in parte sincero, ma viene quasi sempre contraddetto in vari modi; in futuro, assisteremo via via ad una sempre minore sincerità (fino al raggiungimento della piena ipocrisia), alla crescente acutizzazione dei contrasti. Accrescere la propria forza – o almeno giocare nell’ambito dei contrasti tra i paesi più forti – diverrà condizione di esistenza e di miglioramento della propria posizione nel mondo.
 
Una teorizzazione, che oggi appare vecchissima, è quella relativa alla divisione tra capitalismo anglosassone e renano. Se qualcuno ancora pensa allo Stato sociale del tipo passato, appartiene veramente a detto passato. Ciò non significa affatto accettare passivamente che vengano distrutte pensioni, sanità pubblica, ecc. Si tratta di capire però che lo Stato sociale (ma su questo ho in mente un lavoro di ben altra ampiezza) è un retaggio – da difendere il più possibile – di un’epoca in cui di fatto esisteva una sorta di monocentrismo. Nel senso che il mondo bipolare era diviso in un “campo capitalistico” ed in uno in cui si supponeva – errore decisivo che ha condotto a morte il movimento che si proclamava “comunista” – che il potere fosse saldamente nelle mani di classi sociali (con le loro sedicenti avanguardie) di tipo anticapitalistico. In tale configurazione, cristallizzatasi piuttosto a lungo, era evidente nel primo campo l’esistenza di un centro regolatore, che era precisamente il capitalismo statunitense (il cosiddetto “modello anglosassone”); proprio questa regolazione consentì ai paesi europei di mettere in piedi il capitalismo “renano”, in definitiva lo Stato sociale.
 
Questo mondo si è dissolto e con esso la vitalità del tipo di Stato in questione. Chi ancora insiste sulla possibilità di nuove sue risorgenze è un sopravvissuto, che ancora lo pensa come organo di gestione degli affari generali della “collettività”. Non è mai esistito un simile Stato; non dico di tornare alla concezione marxista tradizionale dello “strumento” di dominio di una classe, ma bisogna comunque trattarlo quale campo di un conflitto che può stabilizzarsi (relativamente), anche per lunghi periodi di tempo, in base al predominio di un certo gruppo sociale con le sue articolazioni politiche.
 
L’amministrazione degli affari generali (che ovviamente esiste, altrimenti manca ogni e qualsiasi stabilità) è dunque sempre subordinata alle necessità riproduttive di quel dato sistema di rapporti, che definiscono la preminenza di determinati gruppi e il campo del conflitto tra di essi. Non è sufficiente riferirsi, in generale, al predominio di una “classe” (ad es. quella capitalistica, dei “proprietari dei mezzi produttivi”, ecc.); però i rapporti di preminenza, e le loro trasformazioni, vanno tenuti presenti.
 
Lo Stato sociale si è alla fine rivelato essere una parte degli apparati controllati da certi gruppi dominanti (in cui sono stati cooptati i rappresentanti di ceti subalterni), parte formatasi in paesi legati in una relazione fondamentalmente monocentrica con il paese predominante del “campo capitalistico”. Nella sua istituzione ha avuto un ruolo (non così decisivo come spesso è stato pensato dai cultori della “classe operaia”) anche la presenza di un altro “campo”, in cui prevaleva l’antagonismo rispetto al capitalismo “occidentale” (compreso il Giappone). La difesa di pensioni e sanità – sacrosanta, lo ribadisco – è tuttavia, nella nuova situazione mondiale creatasi, una tipica battaglia di retroguardia. Essa va combattuta con questa consapevolezza; perché le retroguardie sono utili (anzi necessarie) se il grosso delle truppe e le avanguardie stanno seriamente ispezionando il terreno per trovare dov’è possibile il “guado del fiume”, al fine di trasferirsi sull’altra sponda. Bisogna rendersi conto che quest’ultima è ancora largamente ignota; se ne possono però individuare – da “questa parte del fiume” – alcune caratteristiche. Se invece le retroguardie si staccano dal grosso delle truppe, non voltano mai l’occhio all’“altra sponda”, e pensano addirittura di essere in grado di contrattaccare e schiacciare le forze invece soverchianti che ormai avanzano e le spingono sempre più verso “il fiume”, la loro meritatissima sorte è di esservi infine gettate e di annegare. Come sta accadendo ai rimbambiti “comunisti” e “marxisti” in coma sempre più profondo.
 
2. Nella fase attuale, pur tra tendenze contraddittorie e magari con periodi di ritorno all’indietro, andrà probabilmente crescendo l’intervento dello Stato, considerato sotto l’aspetto degli apparati in cui precipita e si condensa il conflitto sviluppantesi nel campo della sfera detta “pubblica”. Non si tratterà però dello Stato sociale, ma degli apparati che più servono nella fase multipolare, al fine di rafforzarsi durante le tensioni che spingeranno viepiù verso lo sviluppo ineguale. Non vi è dubbio che non si distruggeranno di getto le basi del capitalismo detto “renano”; per motivi di coesione sociale e di egemonia dei gruppi di “suprema decisione” (fra loro in conflitto) sui più vasti strati di “non decisori”.
 
Resteranno quindi spazi di lotta per questi ultimi all’interno delle esigenze riproduttive dei rapporti tipici della nuova epoca che avanza. Saranno comunque spazi pur sempre egemonizzati dai gruppi di decisione, con ampi fenomeni di oscuramento o distorsione ideologici; sarà inevitabile il progressivo indebolimento delle forze che si credono anticapitalistiche e sono semplicemente ideologizzate (e deviate) dalle vecchie forme di credenza in un unico capitalismo: quello in cui la “classe” per eccellenza (operaia) avrebbe conquistato una sua posizione cospicua e infine preminente. Tanto cospicua e preminente che oggi il “movimento operaio” è ridotto al lumicino; e chi crede di rianimarlo con vecchie teorie “sottoconsumistiche” – secondo le quali, anche ai capitalisti conviene un certo riformismo per incrementare i consumi delle “masse” e quindi i loro profitti – fa venire le lacrime agli occhi (non so se per il riso o per la malinconica commozione che suscitano i ricordi di giovinezza). In effetti, la vera differenza tra la grande stagnazione di fine ottocento e quella che si profila attualmente nella nuova epoca di tendenziale multipolarismo (con tutto ciò che ne segue: lotta tra potenze, sviluppo ineguale, ecc.), è che allora era in fase montante il “movimento operaio” pur con tutte le debolezze intrinseche poi manifestatesi nel corso del XX secolo; mentre oggi non si nota ancora alcunché di simile nei nostri paesi del “capitalismo avanzato”.
 
Dobbiamo però prendere intanto atto che è finita l’epoca detta bipolare, in cui nel campo capitalistico vi era un centro regolatore rappresentato dal paese predominante. Le acquisizioni – preferisco questo termine al troppo pomposo e trionfalistico “conquiste” – in tema di Stato sociale vanno difese nello stesso senso della lotta per una “migliore” (nel senso di meno sfavorevole ai “non decisori”) distribuzione del reddito. Va però finalmente tenuto conto del diverso ambito della lotta, della nuova epoca che avanza. Oggi sono egualmente battuti, perché “fuori della storia” nella nuova fase multipolare in via di affermazione, sia il neoliberismo – poiché si accentuerà la funzione della sfera politica, che trova la sua più altra espressione nello Stato (ancora nazionale) – sia lo statalismo “riformista” che crede alla possibilità di rianimare la spesa per ampliare la “domanda globale” (e in quest’ambito si situa pure lo Stato sociale, il “modello renano”).
 
Va inoltre ricordato che – mentre non si è ancora approfondito il discorso sul passaggio dalla formazione capitalistica borghese a quella dei funzionari del capitale, che sono l’unico a fare da qualche anno e che non si limita semplicemente alla considerazione della fine della borghesia e del proletariato – si andrà probabilmente acuendo la lotta tra quest’ultima formazione (il cui centro è negli Usa) ed una nuova, di cui certo non si possono, in una fase tutto sommato iniziale e dopo il fallimento dei tentativi di trasformazione “socialistica”, definire i caratteri precipui nell’ambito di una effettiva teoria (sistematica). Tuttavia, tale formazione sociale pur ancora in fieri – di cui, ad esempio, il fondo Pimco intuisce la forza espansiva nella nuova fase parlando, troppo genericamente, di “capitalismo di Stato” (una ormai vecchia concezione) – vede già fuori gioco neoliberismo e statalismo “riformista”.
 
In Cina si devono concedere aumenti salariali, maggiori garanzie ai lavoratori, introducendo migliorie nei vari campi dell’assistenza “sociale”? Sia da “destra” che da “sinistra”, cervelli vecchi e ormai incartapecoriti cianciano circa il riallineamento dello sviluppo cinese ai moduli del capitalismo “occidentale”. Ci si accorgerà ben presto che così non è, che i conflitti sociali in Cina non sfoceranno nella nascita di movimenti subalterni del tipo di quelli del XX secolo, ormai definitivamente appassiti. La Russia darà ulteriori lezioni molto istruttive, che non saranno certamente mai più quelle dell’era sovietica caratterizzata dall’equazione: proprietà statale dei mezzi produttivi (presa per l’equivalente di quella “collettiva”) più pianificazione eguale socialismo; nemmeno però si tratterà di una banale trasformazione dello statalismo in senso socialdemocratico (questo fu l’errore dei socialisti che li condusse di fatto a subire la stessa sorte dei comunisti).
 
Se i paesi, sede della vecchia formazione dei funzionari del capitale, vorranno reggere il confronto, dovranno “pedalare” parecchio; sarà necessario, fra l’altro, un ricambio radicale del loro ceto intellettuale, incapace di uscire dai vecchi schemi. E non ci sarà differenza tra liberisti, keynesiani, sedicenti marxisti. Tutti devono essere gettati tra i rifiuti. Mi sbaglierò, ma i più pronti a cogliere certe novità saranno ancora una volta gli Stati Uniti. Per il momento, il multipolarismo sembra venir contraddistinto dalla sfida e dal conflitto tra questi ultimi e i paesi “emergenti” (tra cui sta anche la Russia, che si è trasformata rispetto all’Urss in senso più idoneo ad affrontare lo scontro per la supremazia). I paesi europei arrancano, i loro specialisti e i loro ideologi sono una vera mostra di anticaglie. O si riuscirà a spazzarli via con estrema violenza o altrimenti l’Europa uscirà di scena. Annientiamoli, per favore, cominciamo a risalire la china. Si distruggano i dementi che ci affossano. Ci si ricordi di come, nella Notte dei morti viventi, venivano eliminati gli zombi.
 
E così sia

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