Diciotto anni senza verità. Quelle ombre che non si riescono a cancellare
Scrivevo quasi un anno fa.
La storia racconta di un Bernardo Provenzano, negli anni dello stragismo di Cosa nostra, sempre più defilato e in disaccordo con Totò Riina. Talmente lontano dal padrone di quello che era diventata l’organizzazione mafiosa dopo la “mattanza” degli anni 70 e 80 da cercare in pezzi dello Stato una “relazione” strategica. E non è difficile addirittura ipotizzare una sua “collaborazione” nella cattura di Riina nel ’93. Queste ipotesi di una strategia di Binnu Provenzano in totale rottura con il capo della Cupola mafiosa si nascondono nelle pieghe di uno dei processi più clamorosi e contemporaneamente più invisibili degli ultimi decenni, quello al generale dei Ros (ed ex capo del Sisde) Mario Mori e al capitano Mario Obinu. Ad accusarli per il mancato arresto di Provenzano nel 1995 è stato un altro ufficiale dei carabinieri, il colonnello Michele Riccio
Al centro delle dichiarazioni di Riccio la famosa trattativa fra Stato e Cosa nostra, il famigerato “papello”, e il bagno di sangue delle stragi del ’92. E la testimonianza, e la morte, di un collaboratore, Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia. Affidato direttamente a Riccio del quale diventa confidente, Ilardo venne infiltrato nell’ambiente mafioso di provenienza. L’ex boss nisseno riuscì perfino ad avvicinare Bernardo Provenzano, ottenendo un appuntamento il 31 ottobre 1995 in una cascina a Mezzojuso. Nonostante Ilardo avvisasse dell’occasione unica non si presentò nessuno ad arrestare Binnu consentendone la fuga. «Informai il colonnello Mori – ha dichiarato al processo Riccio -. Lo chiamai subito a casa per riferirgli dell’incontro e rimasi sorpreso, perché non me lo dimenticherei mai, non vidi nessun cenno di interesse dall’altra parte». Riccio era sul posto, avrebbe potuto intervenire immediatamente appena avuto il via libera dal capo dei Ros in Sicilia. «Mi disse che preferiva impegnare i propri strumenti, dei quali al momento era sprovvisto – prosegue Riccio nel suo racconto -. Noi eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire». L’ ufficiale ha parlato anche di un incontro a Roma fra il collaboratore e il colonnello. «Quando lo portai da Mori, Ilardo gli disse: “In certi fatti la mafia non c’entra, la responsabilità è delle istituzioni e voi lo sapete”. Io raggelai». E Binnu, sfuggito alla cattura, sparì per altri 11 anni. Dopo qualche mese Ilardo venne ucciso a Catania pochi giorni prima del suo ingresso “ufficiale” nel programma di protezione speciale per i collaboratori. Qualcuno sospetta grazie a una “spiata”. E Riccio, poi, ricorda come i nomi dei politici fatti da Ilardo venissero in seguito “stralciati” nella stesura del documento “Grande Oriente” proprio su richiesta di Mori. Uno fra tutti, quello di Marcello Dell’Utri. Ilardo aveva parlato esplicitamente di un contatto tra Provenzano e Dell’Utri, «l’uomo dell’entourage di Berlusconi», e di un «progetto politico», la nascita di Forza Italia, che interessava ai vertici della Cupola mafiosa. E motore di quel nuovo progetto politico, non a caso, era proprio l’allora capo di Publitalia. Riccio ha raccontato in aula nel 2002 di un incontro con l’avvocato Taormina e Marcello Dell’Utri: «Nello studio del professor Taormina mi venne detto che sarebbe stato positivo per il senatore Dell’Utri se nella mia deposizione avessi escluso che era emerso il suo nome nel corso della mia indagine siciliana. Io non risposi e rimasi sbalordito».
L’ingresso di Ciancimino nel processo Mori è solo successivo all’epoca in cui scrivevo questo servizio. Le dichiarazioni di Riccio arrivano molto prima.
E poi c’è la vicenda di Giampaolo Ganzer, il generale attuale capo del Ros, sotto processo a Milano. Scrivevo in un altro servizio di pochi mesi dopo.
Il generale Giampaolo Ganzer, attualmente indagato per associazione a delinquere, e, nonostante la gravità dell’accusa, tuttora in carica. Il generale Ganzer e alcuni suoi uomini sono imputati a Milano per traffico di droga. Una vicenda che non sembrava poter avere un riscontro processuale. Istruito all’inizio dal pm di Brescia Fabio Salamone, il fascicolo aveva infatti conosciuto un gioco al rimbalzo durato anni tra procure della Repubblica per approdare in Cassazione ed essere quindi assegnato a Milano. Sono almeno venti i militari, tra ufficiali e sottufficiali, che avrebbero sistematicamente violato le norme che disciplinano le operazioni antidroga sotto copertura, trasformandosi in trafficanti e raffinatori di stupefacenti in proprio. E non solo. Arresti, obbligatori, di latitanti sarebbero stati omessi, falsificando regolarmente i rapporti all’autorità giudiziaria che comunque sembra avere anch’essa le sue belle responsabilità per mancato intervento. E poi i soldi, tanti. Centinaia di milioni di lire di denaro contante frutto di sequestri durante le operazioni sarebbero stati sottratti alle regole della confisca per essere riciclati. Le accuse dei pm milanesi al generale Ganzer sono terribili. Addirittura la Procura di Milano annota: il gruppo aveva connotazioni di «associazione per delinquere armata». Tutta questa vicenda, se non in qualche raro caso, non è arrivata sulle pagine dei giornali. Ma se la inseriamo in quello che sta emergendo oggi, con gli intrecci degli anni 90 fra pezzi dello Stato ed entità esterne, quando guardiamo al processo Mori-Obinu a Palermo, quando constatiamo quante corrispondenze ci siano fra gruppi e persone e funzioni in casi come quelli delle presunte “centrali” di spionaggio in Telecom con Tavaroli e oggi in Wind con Cirafici, la preoccupazione diventa inevitabilmente allarme.
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