Crisi di governo. La rivoluzione che non faremo

Il Maestro Monicelli, da poco scomparso, riflette ad alta voce nell’intervista a Raiperunanotte augurandosi, per il nostro Paese, quella rivoluzione che, a differenza di altri Stati, non ha mai compiuto, forse per pigrizia, forse per ignoranza, forse per ‘non si sa’.
Di certo, gli italiani sonnecchiano un po', tirano a campa’, guardano la tivù, ripetono obnubilati gesti e frasi modaiole. Non reagiscono ad un sistema che (a sentir dire) sta stretto a molti.
Anche i neolaureati, si fanno bastare mansioni (avercene!) inadeguate alla loro formazione, pur di non doversi incasinare la vita con lotte (di classe) per le quali potrebbero anche sbucciarsi un ginocchio. Non li si può biasimare. Ma fino a che punto?
Ma, bisogna riorganizzarsi, cominciando con l’affrontare con onestà di pensiero un semplice, ma fondamentale, interrogativo: siamo pronti?
Nasce intorno al XIII secolo ed è una forma mentis puramente utilitaristica, tipica del mercantilismo da cui deriva, fatta di convenzioni sociali, che poggia principalmente su due pilastri: il rispetto esteriore di ogni tipo di gerarchia (sociale, politica e religiosa); il desiderio esasperato di successo da ottenere ad ogni costo, purché reputazione e buona fama siano salve, e che sfoggia caratteri come l’educazione, la buona istruzione, il prestigio, la reputazione, il denaro, la vita comoda, la scarsa propensione al sacrificio, l’ipocrisia moraleggiante, la cortesia di comodo, le manifestazioni pubbliche di devozione, l’ostentazione del (finto) rispetto per le leggi, la sanzione sociale, il giudizio del prossimo.
E’ la vera zavorra intellettuale. E per liberarsene è necessaria una rivoluzione giacobina. Una rivoluzione che non faremo.
Come riporta la storica Anna Maria Nada Patrone, il "perfetto borghese" difende "i propri diritti ed i propri interessi ad ogni costo. Sottrarsi alla fiscalità cittadina, ad esempio, ritenuta troppo pesante, non è considerato un atto disonesto, ma lodevole perché permette di non intaccare i propri profitti", rendendo “l'etica borghese un'etica di classe, una morale che tende unicamente a salvaguardare i propri vantaggi e che non può, e non deve, essere condivisa da elementi appartenenti ad altri ceti”.
E anche con la Chiesa, proprio perché scrigno di potere, vi è stretto legame, dimostrato con la “riverenza verso le sue istituzioni, le sue dottrine ed i suoi uomini”, nel totale rispetto e nell’assoluta obbedienza.
Connubio granitico, dunque, tra quanto di peggio si possa sperare per raggiungere quegli obiettivi etici di vivibilità collettiva che in troppi fanno propri (a parole), spostando opportunamente (appunto!) il problema su questo o quel partito politico, su questa o quell’altra questione, fingendo di non sapere che tutto ciò che più avversiamo sta costantemente nei nostri gesti.
La scrittrice statunitense Edith Wharton le ha dedicato tutta la vita di romanziera, condannandone i modi leziosi ed ipocriti dell'800, come in “Raggi di luna” o in “Le età dell'innocenza”. Bertolt Brecht, con “Le nozze dei piccolo borghesi”, racconta le vergognose apparenze familiari manifestate ad un matrimonio a cui ha assistito.
Il caricaturista Gerhard Glück, da decenni è tra i disegnatori satirici più efficaci, riproducendo spaccati di vita come, individui che minacciano l’intero vicinato con l’avvocato o che misurano con il metro la distanza della siepe del dirimpettaio, svelandone le ridicole vanità.
Chi non ricorda "La famiglia Bradford", i coniugi Hart di "Cuore e batticuore", la famiglia Cunningham degli indimenticabili "Happy days", spudoratamente borghesi anche nel titolo.
Tutti esempi imposti di famiglia copertina da ammirare e a cui allinearsi per sentirsi a posto ed accettati.
Visti ora possono rivangare momenti memorabili legati all'età, ma sotto il profilo critico diventano dei veri e propri attentati alla dignità e alla serenità dell’individuo.
"Come mi sento distante da loro, dall’alto di questa collina. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie. Escono dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una “bella città borghese”. Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l’interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali.
Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d’inverno, e alle diciotto d’estate, il piombo fonde a 335° gradi, l’ultimo tram parte dal Municipio alle ventitre e cinque.
Son pacifici, un po’ melanconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che d’una sola giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. La s’impennacchia un po’ la domenica.
Che imbecilli. Mi ripugna il pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l’estrema stupidità di fare figli".
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