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“Conca dell’Eremita”: una storia sociale [parte terza]

[VEDI ANCHE prima parte] [VEDI ANCHE seconda parte]

Agli inizi degli anni novanta, per uno che ci mancava da venticinque anni, venire a visitare Conca dell'eremita, sarebbe stato l'equivalente dell'apertura di un terzo occhio nella fronte, che gli avrebbe certamente disvelato tutti i cambiamenti che erano accorsi non solo nel paesello, ma in gran parte della società meridionale della nazione.

Comunque, tralasciando i cambiamenti economici, circa i quali abbiamo parlato altrove, l'osservatore si sarebbe soffermato su quella caratteristica società giovanile che aveva in sé una certa dicotomia, ingiustificabile agli occhi del concittadino visitatore.

Avrebbe certamente notato che, con il progresso, ma soprattutto con il benessere, si era venuta a creare un'ulteriore biforcazione nella società di Conca, cosa che gli sarebbe risuonata come un'onta: cosa aveva poi tanto di diverso Mario, il figlio dell'ex mezzadro Antonio, ora imprenditore, da Giacinto, il figlio dell'ex fattore del Podestà, ora spazzino comunale, da poter esser visto quasi come un paria dai suoi coetanei appartenenti alla Conca bene?

Il viaggiatore se lo sarebbe certamente chiesto e richiesto a ripetizione, e non avrebbe capito il perché di tutta quella boria giovanile ignara del fatto che, alla fine, non tanto il fato, ma le “leggi” dell'economia più spicciola – se mai certi uomini le avessero mai realizzate – avrebbero presto posto fine a quella parentesi così foriera di benessere – duraturo, se solo fosse stato inteso e ricevuto nel modo giusto - ma anche di contraddizioni, disparità sociale quanto di incapacità di incanalare il progresso.

Dunque, la vita sociale nel prospero paesello scorreva per i giovani di quelle generazioni, sì dinamiche, su due binari diversi e distinti ormai da tempo: da un lato, i già citati “rampolli” della borghesia paesana con le loro compagnie esclusive e, dall'altro, i giovanissimi proletari di una “classe” subalterna.

In quello stesso periodo, l'avventura adolescenziale al paesello di quella generazione di giovani era ormai giunta abbondantemente al termine: tutti stavano per intraprendere percorsi che li avrebbero portati presto a realizzare i loro sogni; almeno questo era il sentimento dei figli della Conca bene. Mario, il nostro eroe, con buona parte della sua combriccola, si accingeva a lasciare il paese per iscriversi all'Università, così anche i suoi omologhi, che avevano lavorato sottopagati e a nero per il padre e per quelli come lui;

questi ultimi, però, si accingevano a lasciare il luogo natio non per motivi di studio chiaramente, ma molti di andarsene non ne avevano nessuna voglia. Alcuni se ne andavano a denti stretti con la rabbia nel cuore, sia per la voglia di farsi un futuro migliore di quello dei loro padri, cosa che era ormai una necessità improcrastinabile, sia per il senso di ingiustizia subita che permeava ogni fibra del loro animo.

Tuttavia, si sa, il benessere è legittimamente contagioso, e non potrebbe essere altrimenti, poiché tutti aspirano ad un certo miglioramento sociale. Il giochino della classe media di Conca stava per rompersi. Il paese era ormai da tempo abituato a vedere i giovani andar via; era sempre stato così d'altronde, ma le strade avevano iniziato da tempo ad esser sempre meno popolate. In più, così come in tutta la Nazione, le giovani coppie del paese non erano più propense a fare molti figli;

i figli una volta erano forza lavoro, ora solo responsabilità. In pochi decenni, si era passati dalle famiglie molto numerose a quelle numerose, per finire a coppie con massimo uno o due figli quando andava bene. Il paese poi aveva smesso da tempo di attrarre gente che aveva scelto di vivere in quel piccolo miracolo sempre più sbiadito. Mentre l'emorragia giovanile continuava, insieme al calo demografico infantile, molti “americani” e altri ex emigranti decidevano di emigrare per la seconda volta.

Conca dell'eremita aveva smesso di offrire una prospettiva di sviluppo. La gente era sempre di meno, il capitale circolante si era ridotto, così il lavoro e le attività; se un tempo emigravano solo i braccianti o la forza lavoro “dequalificata”, da qualche periodo anche i neo-laureati, prodotti dalla classe media, sceglievano di emigrare anche loro.

Mario guardava a tutto ciò come ad un momento di crisi passeggera, e il proprio futuro sarebbe stato certamente diverso – pensava lui - da quello di coloro che sceglievano e avrebbero scelto di lasciare Conca per motivi di lavoro, proprio perché, lì, posto per loro, alle condizioni di una società con salari equi e giusti, non ce n'era; quest'ultima cosa non lo sfiorava minimamente.

Il suo sogno era di diventare insegnante e tornare a vivere nel suo bel paese, culla della sua infanzia felice e ricca di momenti straordinari, per abitare nel condominio che suo padre aveva costruito per tutti i suoi figli. Fu così che decise di trasferirsi a Venezia, dove si era iscritto a Lettere moderne presso la Ca’ Foscari; altri bellissimi e spensierati momenti lo attendevano sulla laguna.

Il suo ulteriore obiettivo, oltre la laurea, era quello di costruire uno splendido futuro con il grande amore della sua vita, Lola. Anche lei era salita a Venezia con lui per studiare economia. Mario e Lola non avevano problemi di soldi, i loro genitori inviavano loro un assegno mensile e la vita tra i canali di Venezia scorreva da dio tra lezioni, amicizie, studi di gruppo, scampagnate, discoteche e quanto la vita cittadina di una splendida città d'arte potesse offrire a dei giovani meridionali di provincia. [... continua lunedì prossimo]

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