• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Economia > Clima, la fortezza di carbone resiste

Clima, la fortezza di carbone resiste

Due tra i maggiori produttori e utilizzatori di carbone del mondo, Sud Africa e Indonesia, puntano i piedi: per la riconversione non vogliono prestiti ma sovvenzioni.

Mentre sono in corso i lavori della COP28, la conferenza sul cambiamento climatico che in questa edizione è ospitata da uno dei maggiori produttori di combustibili fossili, gli Emirati Arabi Unitiun articolo del Wall Street Journal richiama l’attenzione sulle difficoltà di decarbonizzare i paesi in via di sviluppo.

Durante la COP26, tenutasi due anni addietro a Glasgow, erano emerse le gravi difficoltà finanziarie di molti paesi emergenti a dismettere rapidamente l’uso di fonti fossili. Due paesi soprattutto erano al centro dell’attenzione: Sud Africa e Indonesia. Il primo ricava dal carbone circa l’80% della sua capacità di generazione di energia e un quinto della produzione di combustibili liquidi, è tra i primi dieci produttori di carbone nel mondo ed il più dipendente da esso nel G-20. Il settore minerario carbonifero occupa 90.000 persone, in un paese con disoccupazione ufficiale superiore al 30%.

UN PAESE FONDATO SUL CARBONE

Pretoria ha investito circa il 6% del proprio Pil in due maxi centrali a carbone, che entreranno a regime nei prossimi anni. Il paese è in condizioni molto difficili riguardo all’infrastruttura energetica, molto datata e minata da pesantissimi black-out che possono durare anche 12 ore al giorno. Una situazione a cui ha contribuito una corruzione pervasiva. Occorre poi tenere presente l’occupazione prodotta dal settore minerario, che rappresenta una formidabile resistenza a ogni ipotesi di riconversione.

Il governo sudafricano ha quindi chiesto anni addietro ai paesi sviluppati e alle banche di sviluppo un aiuto alla riconversione, anche occupazionale, stimato in 28 miliardi di dollari, di cui assegnati inizialmente 8,5 miliardi. Situazione analoga per l’Indonesia, il primo esportatore mondiale di carbone e quarto paese più popoloso al mondo, con 275 milioni di abitanti, e che nei prossimi otto anni è prevista installare 22 milioni di climatizzatori e mettere in strada 12 milioni di ulteriori veicoli.

I paesi ricchi hanno quindi deciso di aiutare i due paesi, nel tentativo di accelerare la riconversione, e hanno creato il programma JETP, Just Energy Transition Program. Oggi i due governi lamentano che gli aiuti sono nella forma prevalente di debiti e non di sovvenzioni, cioè erogazioni a fondo perduto, e questo rende insostenibile il programma di riconversione.

In Sudafrica, la dissestata utility nazionale Eskom, che come detto è piagata da corruzione e una infrastruttura cadente, ha cambiato gli scenari assumendo che nessuna centrale a carbone sarà chiusa entro il 2028, contrariamente ai programmi iniziali che ipotizzavano un taglio di 6.000 megawatt da centrali a carbone.

NICKEL, COBALTO E CARBONE

In Indonesia, si è invece scoperta una proliferazione ben superiore al previsto di centrali a carbone non connesse alla rete elettrica, utilizzate soprattutto per le fonderie attive nella lavorazione dei minerali fondamentali per la creazione di batterie per veicoli elettrici quali nickel e cobalto.

La situazione ha un che di ironico, quindi. Quando al G20 di Bali di novembre 2022 fu annunciato il JETP per l’Indonesia, del valore di 20 miliardi di dollari in tre-cinque anni, si stimava una capacità fuori rete (da centrali a carbone) di 9.000 megawatt entro il 2030. Ora, pare che già oggi quella capacità, spinta dal boom delle batterie per auto elettriche, sia già a 14.000 megawatt.

La situazione resta molto difficile. I paesi emergenti non vogliono essere appesantiti dal debito per realizzare una riconversione che è comunque critica per l’impatto occupazionale, e chiedono a quelli sviluppati denaro a fondo perduto. Le critiche al “neocolonialismo ambientale” dei paesi sviluppati non sono mai venute meno e ora rischiano di riprendere vigore. Con esse, l’accusa di voler “privatizzare” l’energia anche se il gestore pubblico, come nel caso del Sud Africa, è un grumo di malaffare.

Situazioni non troppo dissimili si colgono, fatte le debite proporzioni, anche in Unione europea, dove la Polonia è chiamata a un grande e costoso sforzo per decarbonizzare che segna la linea di faglia del contrasto politico, anche dentro la nuova eterogenea coalizione che dovrebbe riportare Donald Tusk alla premiership.

PIÙ LINEE DI INTERVENTO

I costi sono stratosferici, le tensioni politiche pure. Anche per questo serve orientare alcune grandi linee di intervento in direzione della neutralizzazione delle maggiori fonti di emissione, come pare che gli Stati Uniti stiano cercando di riproporre, fiancheggiati dai grandi produttori di combustibili fossili, riguardo ad esempio ai rilasci di metano. Anche Ue e -soprattutto- Cina sono della partita.

L’iniziativa, in gestazione da due anni, punta ad abbattere entro il 2030 del 30% le emissioni rispetto ai livelli del 2020. Il metano produce un impatto sul riscaldamento globale che è nettamente superiore a quello della CO2, anche se dissipa prima dall’atmosfera, quindi un intervento di questo genere potrebbe ottenere obiettivi importanti in un arco temporale più breve. Ma è ovviamente solo una parte del menù di interventi da attuare.

Centocinquanta paesi da coinvolgere: problemi di coordinamento da far tremare le vene ai polsi, incluse metodologie di rilevamento, ispezioni e sanzioni per gli inadempienti. Né il tipo di intervento ipotizzato risolverebbe la totalità dei leak di metano: resterebbero fuori altre fonti antropogeniche, come le emissioni dei ruminanti e quelle delle coltivazioni di riso. Una fatica di Sisifo.

Sullo sfondo, il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e tutto quello che ciò implicherebbe per le politiche climatiche del maggior emittente del pianeta. E intanto il tempo scorre, inesorabile.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità