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Circoli del tempo, tempi della memoria

di Adolfo Fattori

 

Il tempo della Vadera di Giovanni Imperato, ilmiolibro.it – Gruppo Editoriale L’Espresso, 2011, pp. 335, € 19,50.

 

“Mi allontanai dai compagni e presi a scuotere l’erba con un bastoncello di legno per allontanare le serpi. Grilli, ruvidi e marroni, teneri e verdi, saltavano per ogni dove (…) Mi misi ad osservarli. Sapevo che i grilli hanno una paura istintiva dell’acqua e se ne stanno lontani per quanto possono. E pure, alcuni parevano spinti al Lavone da una forza oscura. Li vidi buttarsi nel torrente con la determinazione di morire annegati. Ero stupito! Mi chiesi per quale nascosta regola della natura la morte attirasse creature che non sanno né pregare, né maledire. Pensai che, per esse, morire prima del tempo stabilito, potesse essere frutto dei suoi disegni.” (Imperato, p. 72).
 
Un ricordo antico, di un episodio che – evidentemente – nella formazione del narratore ancora bambino doveva aver avuto un’importanza grande, nel metterlo di fronte ad alcuni dei “misteri” della vita e della morte, della natura e della cultura, in un tempo e in un luogo ancora intrisi di sacro, di innocenza, di tradizione.
 
Che Giovanni Imperato confronta, nella pagina successiva del suo romanzo, con un episodio più recente, di quando da adulto assiste alla vera e propria “esecuzione”, in Veneto, di un germano reale da parte di un suo simile, sulle acque di una roggia. Imperato è affascinato – colpito sarebbe dire troppo poco – dal senso di accettazione che coglie nel comportamento del germano “vittima” nei confronti del suo “boia”. Un altro mistero della vita e della morte. Della capacità degli esseri viventi di accettarla, di darvisi in qualche modo, quando – possiamo immaginare – “sentono” che ne è venuto il momento. Cosa che noi umani siamo ormai incapaci di fare. Ma che per gli uomini e le donne delle società tradizionali riguardava anche la contiguità, l’affinità fra i due mondi, il nostro, quello soprannaturale, del sacro.
 
L’episodio – anzi, gli episodi – che ho richiamato dal romanzo sono solo due dei tanti che lo scrittore richiama alla mente e mette a disposizione dei lettori nella dimensione autobiografica che sceglie per raccontare, e che ci immerge nell’atmosfera della seconda metà del secolo appena passato, con un gioco di rimandi fra passato e presente che ogni tanto si affaccia all’attenzione di noi lettori.
 
Un gioco che non solo agisce sul tempo, ma anche sullo spazio: dalla provincia casertana (quella dove ha passato l’infanzia) a quella modenese (dove ha vissuto da adulto), a istituire un legame fra tempi e luoghi che oggi non è più tanto scontato ricordare.
 
Così per la Resistenza (Caiazzo è “Città martire”, Modena ha avuto i suoi martiri), così per la dimensione della “provincia”, della contiguità fra urbano e rurale, fra progresso e tradizione. Così, ancora, per quella dimensione in cui si trova chi ha visto scorrere il mutamento davanti ai suoi occhi, quasi subendolo, assistendovi per così dire, incerto fra la meraviglia per il nuovo che emergeva e la nostalgia per il già noto che impallidiva.
 
Fino ad incidere sui fenomeni naturali, quelli che in un mondo ancora “incantato” sembravano immutabili, intangibili, magari proprio perché più impalpabili, come la nebbia. Come nel Prologo del romanzo: “Questa non è la solita nebbia. E’ nebbia che sale dai canali seppelliti sotto l’asfalto delle strade. Nebbia ostinata. Ombra di morti!” (Ibidem, p. 3). Ancora i morti che si mescolano ai viventi. E l’autore scrive dei primi anni Settanta! Tardi perché il sacro abbia la forza di rintuzzare i colpi del “disincanto del mondo”, ma ancora presto perché sia del tutto cancellato da certi luoghi. E da certe memorie.
Quando, nelle città emiliane, la nebbia in certe stagioni era ancora un fenomeno quotidiano. E copriva, in certe ore della sera e della mattina prestissimo, tutto ciò che era visibile ad occhio nudo di una dimensione magica, incantata, appunto, in cui la realtà conosciuta dei luoghi in cui si procedeva si formava davanti agli occhi man mano che si avanzava, confermando che esisteva ancora, e aveva la forma del giorno prima…
Quasi che la sparizione della nebbia abbia contrappuntato la sparizione della realtà di una volta, quella che nella provincia italiana – senza differenze fra nord, centro, sud – era stata attraversata dalla seconda guerra e vi era sopravvissuta, e poi avrebbe visto il “boomeconomico” e gli eventi successivi, rischiando di smarrire il ricordo del proprio passato.
 
Un pericolo sempre attuale, specialmente oggi, a causa del mutamento sociale ma anche dei tentativi consapevoli di cancellare o modificare la memoria storica, mentre la memoria collettiva rischia di perdersi per conto suo… (Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda, 1996; Candau, 2002).
Non che non ci siano luoghi dove si lavora per conservarla, riproporla, la memoria del passato recente, anche in tempi di mutamento accelerato, di tempo che si fa sempre più veloce (Fattori, 2010). Oltre ai musei, alle istituzioni e alle associazioni, intendo: nella narrativa di genere, ad esempio (Jansen, Khamal, 2011), specialmente in Italia. Ma in questo caso parliamo della memoria dei grandi eventi, dei grandi fenomeni che hanno segnato il tempo dell’Italia negli ultimi decenni, dalla “strage di stato” in poi. Mentre, nel caso del Tempo della Vadera si parla d’altro: di quella memoria più intima, più personale, più auto-biografica, che ci narra del mondo-com’era-fino-a-poco-tempo-prima visto dagli occhi del singolo, prima bambino, poi adulto non-protagonista, osservatore, magari, degli avvenimenti importanti, ma testimone della vita quotidiana, quella toccata solo indirettamente dalla “Storia”, da ciò che accadeva altrove, lontano, in luoghi appartenenti ad una geografia di fatto immaginaria, astratta, quella degli atlanti e delle cartine affisse nelle aule delle scuole.
 
Molto più palpabile, invece, nei primi anni del secondo dopoguerra, in una società ancora arcaica, la dimensione misteriosa latente nell’esperienza della vita nei campi, nei boschi, lungo i ruscelli che facevano da territorio e orizzonte per chi viveva ancora fuori delle città, un mistero che esplodeva improvvisamente, che usciva dalla latenza e si imponeva all’attenzione irrompendo attraverso il ritrovamento del cadavere di un morto ammazzato, ad esempio, di cui non si poteva dire immediatamente se era il rigurgito inatteso di una vecchia storia, o un risucchio indesiderato nella guerra appena finita. E su cui poteva anche capitare che un magistrato curioso riprendesse ad indagare trent’anni dopo, riannodando il filo fra il passato e il presente…
 
Una scrittura che acquista una dimensione quasi cinematografica, quella di Imperato, che rimanda esplicitamente – secondo me – al neorealismo, ai campi polverosi e assolati di certe pellicole degli anni Cinquanta e Sessanta, alla fame che rimaneva un rischio costante, sempre in agguato, ad equilibri che si modificavano e ridisegnavano i rapporti sociali e affettivi, e che si muove quasi nella dimensione di una versione italiana del “realismo magico” che siamo abituati ad attribuire alla narrativa sudamericana.
 
Come in questa, anche nel romanzo di Giovanni Imperato la morte accompagna, discreta ma costante, le vicende dei vivi. La morte dei familiari, ad esempio, che però sopravvivono nel ricordo di chi rimane – ancora un legame col tempo arcaico della tradizione, una sopravvivenza sempre più a rischio di scomparsa (Cavicchia, 2007).
 
Ma è la forma scelta per narrare, quella dell’autobiografia, a permettere all’autore di salvare più piani di discorso: intanto, poiché il ricordo non è mai rigoroso, letterale, ma cambia col passare del tempo, viene rielaborato, modificato, integrato, limato (Campbell, 2011; Fattori, 2011a; Pecchinenda, 2011), è legittimo ricostruire la realtà fondendola con l’immaginazione, e dando così forza ai fatti narrati; poi, perché, almeno in questo caso, gli permette di scegliere di raccontare la storia “minima”, non quella grande, maggiore, dei manuali, facendo intravvedere così al lettore lo sfondo su cui si svolgevano gli eventi “importanti”, e non quello nascosto, reso opaco dalle trame, dagli intrighi, ma quello eliso perché non “interessante” o “significativo”, ma vitale per coloro che hanno vissuto gli anni di quei grandi cambiamenti, a ricomporre il filo di una memoria, quella collettiva, che rischiamo continuamente di smarrire.
Scrive Federico Campbell (cit.) che il tempo accelera con l’età, che man mano che accumuliamo anni ci sembra che il passato si “restringa”, e che il futuro ci venga addosso sempre più velocemente. Di fatto, del passato ricordiamo sempre meno – se non lo scriviamo; di futuro ne abbiamo sempre meno – se non riusciamo ad immaginare come colonizzarlo, riprenderlo in mano, operazione peraltro sempre più difficile. Raccontare il passato recente, quello che abbiamo vissuto di persona, come insieme ad altri ha fatto Imperato, diventa allora sempre più urgente. Dobbiamo avere fretta, insomma, noi della nostra generazione, a raccontarlo. Dobbiamo restituire il nostro passato a coloro che vengono dopo di noi perché sappiano da dove vengono, e possano decidere dove andare (Fattori, 2011b).
 
Letture
Campbell F., Padre e memoria, Ipermedium, S. Maria C. V.
Candau J. (2002), La memoria e l’identità, Ipermedium, Napoli.
Cavicchia Scalamonti A. (2007), La morte Quattro variazioni sul tema, Ipermedium, S. Maria C. V.
Cavicchia Scalamonti A., Pecchinenda G. (1996), La memoria consumata, Ipermedium, Napoli.
Fattori A. (2010), Cronache del tempo veloce, Liguori, Napoli.
Fattori A. (2011a), La realtà è letteraria. Di cose che si trovano nei sogni, nei ricordi, nei romanzi, in “Agoravox”, 02/06/2011,
http://www.agoravox.it/La-realta-e-letteraria-Di-cose-che.html
Fattori A. (2011b), Riempire i vuoti La vierità, la memoria, l’immaginazione,in “Belphégor – Littérature populaire et culture médiatique”, X, 2, 8/2011, ISSN 1499-7185,
http://etc.dal.ca/belphegor/vol10_no2/fr/main_fr.html
Jansen M., Khamal Y. (a cura di, 2011), Memoria in Noir, PIE Peter Lang, Bruxelles.
Pecchinenda G. (2011), Raccontare per essere, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 32, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero32/bussole/q32_b03.htm
 

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