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Carlo Goldoni e la mediazione. La famiglia dell’antiquario

La commedia dell'arte ha rappresentato molti conflitti interpersonali. Carlo Goldoni (1707-1793) sembra un autore molto esperto delle dinamiche delle liti e della negoziazione; può essere letto perciò per capire meglio cos'è - ma anche come non deve essere svolta - la mediazione stragiudiziale, che è appena rientrata nella vita degli italiani con la L. 98/2013.

La famiglia dell'antiquario si apre con una presentazione della sregolata e incompetente mania che il Conte Anselmo nutre per l’antiquariato (I, 1); aspetto che Goldoni recupera in varie altre scene, portandolo al parossismo, e che segnala un problema di comunicazione: il padrone di casa si rifugia nella passione per l’antiquariato perché non vuole badare alle isterie delle donne di casa oppure esse insistono a litigare perché il padrone non si occupa di badare al buon andamento della casa? Il Conte Anselmo fugge dai problemi creati dalle donne di casa («Io ho qui da divertirmi per due o tre mesi […] così non avrò lo stordimento di quella fastidiosissima mia consorte», III, 2); ma questo atteggiamento, allo stesso tempo, alimenta il conflitto perché non gli permette di controllare la lite. Il microconflitto d’interessi dell’antiquario non viene affrontato e anche il conflitto che ne deriva, tra suocera e nuora, alla fine, resta irrisolto.

Analizzando la commedia si possono individuare le varie fasi di una mediazione condotta malamente e, per questo, destinata al fallimento.

I primi sintomi di tensione si percepiscono quando Doralice (nuora) rinfaccia al Conte Anselmo di avere apportato 20.000 scudi di dote e di non avere in cambio neanche un vestito decoroso con cui poter uscire di casa (I, 5). Egli risponde fuggendo, per rintanarsi nella sua collezione (I, 6).

L’entrata in scena di Colombina (cameriera) detona il conflitto, quando ella rifiuta a Doralice di confezionarle una cuffia, preferendo servire la Contessa Isabella (suocera di Doralice). Per questa irriverenza, la serva Colombina ottiene in cambio uno schiaffo (I, 8). Il microconflitto di Doralice con la cameriera è allo stesso tempo sintomo e mezzo del mesoconflitto di Doralice con la suocera.

Questo iniziale annidamento di liti (il Conte Anselmo è in contrasto con le proprie responsabilità di capo famiglia; la Contessa Isabella è in conflitto con Doralice; quest’ultima litiga con Colombina) preannuncia il pessimo esito del tentativo di conciliazione familiare, peraltro svolto malamente.

La Contessa Isabella, intanto, dimostra al figlio (Giacinto, marito di Doralice) la propria antipatia verso la nuora, che vorrebbe usurparle il ruolo di padrona (I, 10), pur non essendo «degna di venire in questa casa» (I, 11). Le emozioni negative della Contessa Isabella determinano una posizione di principio che oscura gli interessi patrimoniali dell’intera famiglia dell’antiquario: Doralice infatti contribuì con i 20.000 scudi di dote a risanare le finanze della casa del Conte Anselmo. Forse l’astio della Contessa Isabella nei confronti di Doralice deriva proprio dal fatto che lei, borghese, risollevò la famiglia nobile, rinvigorendone il patrimonio, ma svilendola moralmente.

La Contessa Isabella si confida con il Cavaliere del Bosco, il quale si promuove quale mediatore (I, 14), senza però capire quali «soddisfazioni» pretende Isabella (I, 15). Il Cavaliere è destinato perciò a negoziare invano, parlando di posizioni di principio.

Pantalone (padre di Doralice), venuto a conoscenza dell’incidente, cerca di far ragionare la figlia: avendo capito che ella ha bisogno di un vestito, le dona 50 zecchini (I, 19) e, pur in buona fede, commette tre errori in uno. Primo, tenta di mediare essendo palesemente parziale (è il padre di Doralice). Secondo, tenta di risolvere il problema mediante le proprie risorse, invece che mediante le risorse delle parti. Terzo, impedisce che Doralice chieda scusa alla Contessa Isabella per farsi comprare in cambio il vestito.

Il Cavaliere del Bosco tenta di negoziare con Doralice, ma ella riesce a gestire la conversazione e a trasformarlo in giudice di comodo (I, 21). Ciononostante il Cavaliere suggerisce uno dei presupposti di qualsiasi mediazione, cioè che le due si incontrino personalmente, ma poi rovina anche questo buon suggerimento: le due si incontrano in “sessione congiunta” e Doralice interpreta alla lettera le parole del Cavaliere (I, 22): «Signora, perché siete più vecchia di me, vi riverisco». Per merito di poche parole inopportune, le parti passano dal mesoconflitto al macroconflitto. Nonostante gli sforzi dei mediatori, il processo opposto sarà impossibile.

Doralice investe i 50 zecchini per corrompere Colombina, promettendole una paga superiore a quella che riceve dalla Contessa Isabella (II, 3). Così facendo, invece di migliorare la propria posizione, aumenta gli attriti: «Per uno zecchino il mese, non solo riporterò quello che si dice di lei, ma vi aggiungerò anche qualche cosa del mio».

Proprio quando Doralice parla di conciliazione (II, 5), emerge una distorsione cognitiva che il Cavaliere del Bosco non è preparato a rimuovere: di fronte alla possibilità di finire in rovina, Doralice, per principio, preferisce insistere nel conflitto, perseguendo la strategia della distruzione reciproca assicurata. Inoltre, ella crede in un comportamento altrui di cui non è stata testimone e il mediatore, piuttosto che far riflettere la donna sulle conseguenze delle proprie azioni (cioè sugli interessi), si preoccupa di valutare la validità della testimonianza (cioè di giudicare le posizioni di principio).

Nonostante il Cavaliere smascheri le responsabilità di Colombina (II, 8), gli attriti tra nuora e suocera rimangono talmente radicati da richiedere un tentativo ufficiale di mediazione amministrato dal disinteressato Conte Anselmo (II, 18-20), il quale però finisce per rifugiarsi come al solito nella propria mania antiquaria.
L’incontro appena accennato inizia col consueto benvenuto e con il discorso introduttivo del mediatore, che però non riesce a creare un clima empatico perché connotato da un marcato senso di autorità (invece che di autorevolezza). Autorità, peraltro, mai esercitata prima dal Conte e perciò registrata come inappropriata (II, 18). Si bada all’orario (gestione del tempo e agenda dei lavori), ma quando Anselmo nota un orologio con cammeo, egli deve essere sostituito dal mediatore Pantalone (II, 19), che a sua volta non dimostra autorevolezza, che non riesce mai a segnalare le conseguenze della situazione (gli interessi patrimoniali che pure è riuscito a individuare) e che si stanca presto di negoziare, non riuscendo a gestire la comunicazione.

Il tentativo di mediazione del Conte Anselmo e di Pantalone si rivela pessimo per diversi motivi: i mediatori sono personalmente interessati; vengono parafrasate solo le posizioni di principio delle parti (inasprendo i sentimenti litigiosi); sono trascurate le conseguenze oggettive e i punti deboli; tutti i presenti auspicano a giudicare, a farsi giudicare o ad imporre le proprie decisioni, mediatori compresi. L’inevitabile fallimento della mediazione è segnalato dalla trasformazione di ogni parola in un pretesto di lite, dall’inasprimento delle emozioni negative e delle posizioni di principio (II, 20).

Fallita la negoziazione diretta, si tenta di negoziare per intermediari, alternando brevi incontri riservati (III, 6): il Cavaliere del Bosco rappresenta Doralice e il Dottore Anselmi rappresenta la Contessa Isabella, col problema fondamentale che entrambi hanno il potere di trattare ma non di concludere.

La prima soluzione individuata dai negoziatori è quella di far tornare Doralice a casa di Pantalone, restituendole la dote. La Contessa Isabella contesta che anche lei contribuì alla famiglia del Conte Anselmo con una dote, perciò pretende di scontarla dalla restituzione in favore di Doralice. L’operazione, oltre a vedere la Contessa in credito e Doralice in debito (forse per questo Isabella l’ha proposta) e oltre a rovinare il patrimonio di Anselmo, è anche illogica, quindi l’ipotesi viene bocciata (Isabella potrebbe averla proposta proprio con l’intento di farla bocciare).

Si propone quindi di dotare Doralice ogni anno di 400 scudi, che ella amministrerà come meglio crede. La Contessa Isabella rilancia per 300 scudi, invece dei 400 proposti. La transazione sembrerebbe accettata da Doralice, ma quando si tratta di fare incontrare le due bisbetiche, queste si accapigliano nuovamente per questioni soggettive («a me vecchia?», «Signora giovinetta, la riverisco», etc.).

Pantalone capitola per imporre una soluzione arbitrale che si configura come una sentenza imposta dalla necessità di salvare il salvabile (III, 8), preso atto che la riconciliazione è impossibile (III, 9).
La proposta che verrà firmata per risolvere la lite è la seguente:

1.Pantalone riscuote le entrate della famiglia del Conte Anselmo.
2.Pantalone provvede a fornire tutti i familiari di vitto e vestiario.
3.Pantalone decide come procurare quiete alla famiglia.
4.Isabella e Doralice non devono avere amicizie continue e fisse.
5.Isabella abita al piano di sopra e Isabella abita al piano di sotto.
6.Colombina è licenziata.

La soluzione aggiudicativa non può funzionare per molti aspetti, non ultimo la trasformazione di Pantalone da mediatore in giudice e in esecutore del contratto. Sebbene allo scopo di portare la pace, egli assume unilateralmente diritti e doveri che si impongono sulla libertà altrui.

Le due protagoniste dimostrano di non essere disposte a scambiarsi un segno di pace neanche per ottenere in cambio un anello di diamanti, a testimonianza che le posizioni di principio soggettive si sono radicate, senza essere state sostituite dagli interessi razionali.
La morale conclusiva di Pantalone è spietata e riassume l’assurdità della lite e della soluzione imposta dall’alto di un’autorità non riconosciuta:

Orsù, vedo che xè impossibile de far […] che le se pacifica; e se lo fasse, le lo farave per forza, e doman se tornarave da capo. […] Vu altre do sé stae nemighe per causa de una serva pettegola, e de do conseggieri adulatori e cattivi; remosse le cause, sarà remossi i effetti […] e no vedendose, e no trattandose, pol essere che le se quieta.

Il conflitto non è risolto perché Doralice e Isabella continueranno a odiarsi e, benché abiteranno una sopra e un sotto, troveranno nuovi motivi di lite, magari perché quella di sopra farà troppo rumore camminando oppure perché quella di sotto immetterà fumi molesti dalla propria cucina verso l’appartamento soprastante.

Non è vero che rimosse le cause si rimuovono anche gli effetti, anzi, imponendo alle due donne di sfuggirsi reciprocamente, il conflitto rimane latente e, senza valvole di sfogo, promette di esplodere violento più tardi.

Poiché nessuna delle due vede nella soluzione architettata da Pantalone un interesse personale proiettato nel futuro (Doralice e Isabella non commentano favorevolmente l’accordo) e poiché nessuna delle due ha contribuito a configurare la soluzione né a selezionarla, la scontentezza e gli attriti aumenteranno col passare degli anni.

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