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Brexit? Laissez faire, let it be

Siamo ormai giunti al momento atteso da quasi quattro anni: il Regno Unito esce dalla Ue. Almeno, questa è la nota che accompagna la data del 31 gennaio 2020

Dal giorno successivo, inizierà un percorso molto problematico, con un traguardo assai ravvicinato: il 31 dicembre di quest’anno. In quella data, almeno secondo Boris Johnson, dovrà essere operativo un trattato di libero scambio tra Regno Unito e Unione europea.

Grande scetticismo da parte continentale sulla fattibilità di tale scadenza, e crescente disagio e nervosismo da parte dell’industria britannica. Johnson punta ad un accordo sulla falsariga del CETA tra Canada e Ue, cioè qualcosa di snello e tale da garantire ai britannici massima autonomia nei rapporti commerciali con altri paesi.

La Commissione Ue ha già detto che la variabile chiave è l’allineamento regolatorio. Tanto maggiore quest’ultimo, tanto più profondo sarà l’accordo commerciale col Regno Unito. Ma Johnson, ed il suo Cancelliere dello Scacchiere, Sajid Javid, hanno già detto in modo netto che l’allineamento regolatorio è escluso.

A questo punto, come interpretare questa posizione? Come il ritorno della suggestione del modello “Singapore sul Tamigi”, di cui si favoleggia da anni, in cui un Regno Unito trasformato in agile nave corsara della riglobalizzazione attira verso di sé i capitali planetari applicando in modo spregiudicato il disallineamento regolatorio?

Può essere. In quel caso, il paese dovrà prepararsi ad un accordo commerciale minimale con la Ue e soprattutto a controlli di ogni genere. Ispezioni doganali, certificazioni di conformità e quant’altro. Più red tape per commerciare con l’Unione. Non da escludere la possibilità che, dal prossimo primo gennaio, il Regno Unito scambi con la Ue sulla base delle tariffe della Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

Posso dire la mia? Credo che la Ue sbagli, ad esigere l’allineamento regolatorio. La Brexit nasce come “idea” per liberare il Regno Unito dalle presunte “catene” che l’Unione avrebbe posto ai piedi del paese. Ricordate Johnson che si paragona ad Hulk, intento a spezzare quegli infami ferri comunitari?

Ad oggi i britannici non hanno visto nulla, degli effetti della Brexit “clean“, cioè Hard, che rappresenta l’essenza di quel referendum di ormai quattro anni addietro. È necessario che vedano le conseguenze di quell’evento, non una versione devitalizzata.

Dicendo questo non sto necessariamente vaticinando – o peggio, auspicando- sciagure. Potrebbe anche accadere che, dopo una transizione difficile, con crollo degli investimenti e forte aumento di disoccupazione, il Regno Unito inizi ad attrarre capitali globali come un potente magnete, grazie alla sua assoluta deregulation dei rapporti commerciali. Una specie di Singapore, appunto.

Brexit è un momento di deglobalizzazione, nel senso che i flussi di libero scambio con la Ue vengono meno. O meglio, è un momento di decostruzione, propedeutico alla ricostruzione. L’esito finale potrebbe anche essere quello di un vero e proprio rinascimento del commercio estero e del ruolo britannico nel mondo, chi può dirlo?

La Ue teme che la nave corsara britannica possa fare tabula rasa degli standard lavorativi ed ambientali? E se anche fosse? Riguardo ai primi, la parola spetta comunque all’elettorato britannico: se a quest’ultimo andasse bene una settimana lavorativa legale di sessanta ore, chi siamo noi europei continentali per opporci? Vedo peraltro improbabile che il Regno Unito si trasformi in un paradiso di lavoro minorile a basso costo: il paese punta a ben altro, ed a noi falliti italiani potrebbe insegnare qualcosa.

Discorso analogo per gli standard ambientali, con l’aggiunta che la Ue deve perseguire l’idea di una carbon tax di confine, per evitare importazioni in dumping ecologico, se così si può dire. Certo, più facile a dirsi che a farsi ma, anche qui, dubito che il Regno Unito voglia trasformarsi in una sorta di inquinatore planetario, prima che della propria terra.

Ma di una cosa i britannici dovranno prendere atto: che quando negozi un trattato commerciale, hai punti di forza e di debolezza. Spesso troverai qualcuno grande e grosso che ti metterà lo stivale sui denti. Ma se la scelta di rompere quelle famose catene, vere o immaginarie, nasceva dall’insofferenza per essere parte di un blocco commerciale e dover quindi negoziare all’interno di esso la posizione esterna comune, ben venga una Hard Brexit e la “ripresa del controllo”, inclusi rapporti di forza e debolezza diretti e non derivati. Forse, in quella occasione, molti britannici scopriranno che oggi l’impero non è più il loro ma quelli altrui. Sarà utile anche quella epifania, comunque.

Se poi i britannici dovessero vincere clamorosamente, dopo una prima fase di ovvia e necessaria difficoltà, gli europei continentali potrebbero scoprire un modello alternativo di sviluppo. Forse “turboliberista” e dedito alla “macelleria sociale”, come amano squittire i socialisti surreali italiani, o forse no. Sarà molto interessante, a questo proposito, vedere come Johnson declinerà la rottura delle presunte catene europee con la coltivazione dell’elettorato delle zone deprivate gentilmente donatogli dal Labour. Un esperimento nell’esperimento: attendiamo con grande curiosità.

Quindi, cara Ue, non incarognirti: lasciali fare, laissez faire. Vogliono il non allineamento regolatorio? E sia: da capodanno 2021, regime di tariffe WTO e controlli doganali estensivi ed intensivi. Nel breve termine avranno costi enormi, economici e sociali, come sempre accade nelle fasi di deglobalizzazione, e spetterà al loro elettorato decidere se stringere i denti e sopportare la sofferenza o mandare a Downing Street un “europeista” nel senso di un premier che riduca il danno accettando la convergenza alla Ue. Oppure mandare un socialista radicale alla Corbyn o suo discendente politico, che si occuperà di autoaffondare la nave corsara, bloccare i flussi di capitale e catturare e tosare quello che è rimasto entro i confini nazionali. Questo è il menù, al popolo la scelta delle portate ed il conto della consumazione.

Come notate, la mia posizione non è mutata. Ero per una cosiddetta Hard Brexit da subito, e continuo ad esserlo. O forse sono e continuo a restare a favore della realtà rispetto alle fiabe. Quella narrazione tossica all’italiana, in cui non si arriva mai all’epilogo della verifica delle scelte fatte, e dove quindi prosperano gli spacciatori di sogni e televendite. Anche per reazione a questo, forza Brexit.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Enzo Salvà (---.---.---.64) 24 gennaio 2020 11:36
    Enzo Salvà

    D’accordo con Lei nel lasciarli fare, la questione più grande è che a fronte dei vincoli UE sono i britannici a non decidersi.

    Potevano farlo, le regole di scambio relative a Dogane e pratiche burocratiche la UE la ha già attivate a Gennaio 2019 a partire da Febbraio 2019. Per la logistica in esportazione i porti di Rotterdam e Zeebrugge avevano già definito procedure, precedenze, regole di prenotazione imbarco ecc.

    Tutto sembrava bloccato dal backstop in Irlanda che non è solo una questione economica. Se in Irlanda del Nord si è risolto lo scontro tra repubblicani e lealisti molto dipende dalle frontiere aperte dell’UE e l’UE non può permettersi di essere accusata di non aver fatto tutto per evitare una nuova guerra civile.

    L’accordino raggiunto in autunno è una foglia di fico ma è stato raggiunto ora, i britannici, non sanno più che pesci pigliare e decidono di fare tanto teatro ma la decisione drastica non la prendono. Non è L’UE con li trattiene, sono loro che si trattengono da soli.

    Con le parole si può convincere, poi contano i fatti conseguenti.

    Un Saluto

    Es.

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