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101 storie di camorra che non ti hanno mai raccontato: intervista con Bruno De Stefano

In libreria da pochi giorni, l’ultimo lavoro del giornalista e scrittore Bruno De Stefano. Per i tipi della Newton Compton Editori, nella collana 101. Il titolo è infatti 101 storie di camorra che non ti hanno mai raccontato. Non una semplice raccolta e neanche, come molti hanno sempre suggerito dopo il fenomeno Gomorra, uno sfruttamento del già noto tema della camorra. Il testo di De Stefano si inserisce come un rottura verso l’appiattimento dei media sulle star dell’antimafia e il suo riciclare storie già note. Voce critica e allo stesso tempo analitica del fenomeno criminalità organizzata, De Stefano raccoglie storie del passato e argomenti che si cerca di sottacere. Ammazzamenti di serie B, collusioni di serie A e falsi attentati. Una sorta di mappatura del crimine, quello vero e non da salotto, che si fa leggere con curiosità e indignazione. De Stefano è un autore estremamente critico del fenomeno mediatico della camorra e 101 storie di camorra coglie lati dolorosi di come il dolore sia diventato pane circense per molti. Eppure De Stefano non lo si vede in TV, non fa l’opinionista, perché la sua ricerca è scomoda e non ha padroni e tesi confezionate per il pubblico serale. I suoi scritti fanno male perché sono uno sguardo reale sulla quotidianità e la sua complessità. Non scrive per piacere, ma per denunciare. E facendo questo si pone nel territorio poco calpestato dell’indipendenza di pensiero totale in Italia. Perché la criminalità organizzata non è settore industriale indipendente della società italiana, ma è parte di una multinazionale ben organizzata e completamente integrata nel nostro tessuto sociale. Ed anche l’antimafia diventa una sorta di casta ben strutturata in cui le voci che indagano per davvero sono messe ai margini.

 
 
Come nasce 101 storie di camorra?
Nasce dall'idea di raccontare un fenomeno così complesso in maniera diversa, più originale. Messe in fila, infatti, le piccole e grandi storie danno l'idea di cosa sia la camorra anche e soprattutto al di là degli omicidi e delle stragi. Nel mio libro si parla di boss e di assassini, ma pure di calciatori, giornalisti, scrittori, preti, imprenditori, studenti, casalinghe, attori; il tentativo è quello di dimostrare che la camorra è un fenomeno molto complesso e trasversale e che non bisogna credere chi, con una semplificazione da oratorio, la rappresenta come il male assoluto che combatte contro una società civile buona.
 
Queste sono storie che solo la camorra non ci vuol far conoscere o altri soggetti tendono ad oscurare?
Mah, diciamo che il più delle volte si tratta di storie che vengo ignorate o sottovalutate dal mondo dell'informazione perché i protagonisti non sono “personaggi” da vendere all'opinione pubblica. Ai lettori spesso viene data in pasto una sbobba fatta di tanta retorica e pochi fatti, tant'è che molti si sono fatti un'idea sballata della criminalità organizzata. A mio avviso in molti casi, i media hanno trattato vicende importanti in maniera superficiale, mentre hanno dilatato a dismisura fatti che meritavano meno spazio. Non sono errori di valutazione, ma la necessità sempre più forte di trasformare in spettacolo anche un tema serissimo.
 
Credi che oggi l'antimafia si accomodi troppo nei salotti delle TV?
Si, ne sono convinto. La battaglia civile si combatte solo con dichiarazioni roboanti e con interviste di personaggi dall'aria contrita. Se fosse vivo, a Leonardo Sciascia oggi darei un premio. Meno di vent'anni fa avvertì, come sempre prima degli altri, l'arrivo sulla scena di una nuova categoria, quella dei professionisti dell'antimafia; gente che approfittava di una battaglia civile per fare soldi, carriera, o semplicemente per avere visibilità. Io penso che oggi l'antimafia, tranne qualche nicchia virtuosa, è diventata una scorciatoia per chi vuole apparire sui giornali, in tv o fare carriera. Ed è un atteggiamento che funziona: basta attaccare uno dei paladini dell'antimafia per passare come un amico dei camorristi, un fiancheggiatore dei criminali.
 
Dal tuo punto di vista, perché dopo tanta scrittura, indignazione, non cambia assolutamente nulla? A cosa serve quindi la conoscenza del crimine organizzato?
Io non credo che la scrittura possa incidere in una guerra che va combattuta con altre armi. Scrivere è un modo per tenere sempre i fari accesi sulla realtà, ma non bisogna mai farsi delle illusioni sui benefici che apporta la conoscenza. Spesso la gente sa chi sono i disonesti e gli assassini e sceglie liberamente di stare dalla loro parte. E chi sostiene che la parola abbia un effetto miracoloso vende solo fumo. O, tutt'al più, vende solo la sua merce.
 
Ci sono falsi martiri e falsi eroi in questa stagione di riscossa contro le mafie?
Non so se stiamo vivendo una stagione di riscossa. Ho invece la sensazione che mai come in questo periodo, in circolazione c'è un grappolo di falsi eroi e di falsi martiri.
 
Qual è la storia che più ti ha sconcertato di quelle che hai riportato nel tuo nuovo libro?
E' quella di un ragazzo che abitava a pochi chilometri da casa mia. Era un pacifista, un obiettore di coscienza che aveva scelto di fare il servizio civile per non indossare la divisa da militare. Questo ragazzo è morto ammazzato in un agguato di camorra teso al disabile a cui prestava assistenza. Voleva evitare di partecipare ad una guerra finta facendo il militare, invece è morto in una guerra vera.
 
Cosa ti sconcerta maggiormente adesso sia della criminalità organizzata che della sua rappresentazione mediatica?
Della criminalità organizzata mi sconcerta soprattutto che abbia dilagato nei ceti medio-alti; anche chi non ha bisogno di aiuti o di sostegno, oggi vede la camorra come l'unico interlocutore al quale rivolgersi in caso di bisogno. La camorra, del resto, continua ad essere più affidabile dello Stato.
 
Ha destato molta contrarietà il tuo capitolo su don Peppe Diana, perché?
Perché ho toccato un tasto dolente raccontato che aveva avuto delle relazioni con due signore. Si era sempre detto che era stata la camorra a mettere in giro le maldicenze sul prete, mentre io ho pubblicato tre testimonianze dalle quali si evince che don Diana aveva avuto davvero delle relazioni sentimentali. Come tutti gli eroi dell'antimafia, don Diana è considerato un totem, quindi di lui bisogna solo parlar bene. Ma io non devo né difendere né accusare nessuno: sono un cronista e scrivo solo quel che riesco a documentare. Potrà non piacere, ma che don Diana avesse un debole per il gentil sesso è un dato oggettivo. Non si tratta, almeno per me, di fare del moralismo spicciolo, quanto di provare a ricostruire una storia senza omissioni né forzature.  
 
La gente è pronta ad accettare le tante verità altre delle 101 storie di camorra?
Ho dei dubbi. In fondo la gente il più delle volte vuole essere rassicurata e se ha delle convinzioni tende a rafforzarle più che a metterle in discussione. In ogni caso, io penso che un giornalista non debba mai porsi domande: deve scrivere solo ciò che sa, in maniera precisa e documentata. Senza mai ingannare i lettori. 

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