Il tuo problema è che continui a considerare situazione segregate, in cui c’è un gruppo omogeneo (ma i "sani" sono tutti uguali tra loro e i disabili sono analogamente identici) in cui viene inserito un diverso. Questo è il fondamento del razzismo, cioè inserire le persone in una classe, annullandone ogni peculiarità, tutti sono uguali nel bene e nel male. Hanno una caratteristica in comune, una sola, che li accomuna rendendoli uguali. Poi c’è il diverso, che per definizione è altro da loro, perché non ha quella caratteristica di cui sopra. E magari è simile a molti di quel gruppo per altri motivi, ma ci sono parametri di serie A, che definiscono i gruppi di appartenenza delle persone, e altri di serie B, che non contano.
E’ una visione semplificata della realtà, che non è fatta di bianco e nero, ma di sfumature di grigio. C’è il bambino "sano" ma gracile fisicamente. C’è il bambino "sano" ma con un IQ un po’ bassino. C’è il bambino disabile fisicamente ma intellettualmente estremamente dotato. C’è quello che ha disabilità psichiche ma funziona quasi genialmente in un campo. Ci sono quelli che non saranno in grado di esprimersi in modo funzionale, ma questo vale per tutte le categorie, solo questione di sfumature.
Tu confondi il trauma con la risposta a stimoli: la situazione da te ipotizzata si verifica quotidianamente, in ogni scuola d’italia, quando un bambino un po’ più dotato di altri, o precoce, si ritrova inserito in una classe in cui il livello medio è più basso. Succede ogni giorno. Anche in questo caso le sue potenzialità risultano limitate, eppure nessuno si scandalizza perché la scuola non è concepita per ottimizzare le capacità del singolo, ma per garantire il raggiungimento di uno standard minimo di istruzione alla massa. Poi ci sarebbe da aggiungere il concetto ormai universalmente accettato della varietà di tipi di intelligenza, per cui non esiste solo la capacità logico-matematica, quella cinestetica... ma anche relazionale... e una realtà basata sulla segregazione tende a limitare lo sviluppo di quest’ultima. Chi può dire se è più importante saper risolvere le equazioni differenziali oppure comunicare con le persone? Nella vita servono entrambe le capacità, pena riuscire magari bene in alcune professioni ed essere disadattati nella vita relazionale.
Il trauma di cui lei parla non è causato dalla vicinanza con disabili, ma dall’esposizione ad un ambiente segregato di cui non si farebbe parte. E’ per questa decisione di partenza, di separare nettamente le persone in base ad una caratteristica, che poi si diventa diversi. Quel trauma varrebbe per un ragazzo di "colore" inserito in un contesto di "bianchi", e viceversa per un "bianco" inserito improvvisamente in un contesto di "neri". Per un orientale inserito in una società occidentale e viceversa. La storia insegna che in tutti questi casi c’è stata discriminazione, addirittura per casi di tratti diffusi un po’ ovunque ma magari rari, come per la caccia alle streghe, identificati nelle persone di capelli rossi.
Come si combatte questa segregazione, che è la causa del trauma, non la sua conseguenza: creando un ambiente disomogeneo, in cui non esiste un tratto distintivo e tutti sono a contatto con tutti.
E non è neanche necessario crearlo, quell’ambiente, perché esiste già. E’ una distorsione pretendere che la realtà sia fatta di bianco e nero, ON/OFF, 1 o 0. Le persone non sono uguali a meno di non volercele considerare appositamente, contro ogni evidenza.
Dai disabili si può imparare e molto, non sono una zavorra che limita le potenzialità altrui.