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 Home page > Attualità > Cultura > "Voi che leggete siete privilegiati", Corrida #35

"Voi che leggete siete privilegiati", Corrida #35

L’unico racconto pubblicato a puntate sulla rete che è un po’ come la vita: si sa quando e come inizia, ma non si sa mai bene dove vada a finire.

per chi si fosse perso qualcosa, eccovi la puntata precedente

.35

Ci sono frazioni di secondo in cui, talvolta non sai davvero come comportarti, e passi i secondi vagliando le ipotesi, facendo finta di avere tempo, ma risultando ebete algi occhi degli altri.

"Chi cazzo sei tu?"
Si rifece avanti la domanda, e dopo aver scartato alcune ipotesi, tra cui quella di gettarmi da solo in mare e fuggire, provai a rispondere, ma prima ancora che la mia voce riuscisse nella mia presentazione, tutti si misero a guardarmi, ed un coro condanno la mia innocenza ingenua con una sola parola:

"Infiltrato!"
"E’ un infiltrato, una spia!"
"Uccidiamolo!"

Il mio viso doveva somigliare molto a quello di un bambino sorpreso a rubare in un supermercato, un misto di ingenuità, ebetismo, silenzio e passione, in cui i muscoli si bloccano per una sorta di ansia e paura, causando un completo abbandono al circolo degli eventi.
Il fatto che mi credessero un franchista era quantomeno paradossale, ma non avevo niente per dimostrare il contrario.

Con difficoltà mi alzai in piedi sulla canoa ed iniziai a parlare, per cercare di levarmi di dosso l’onta della colpa.

"Sono uno di voi, i franchisti mi hanno incarcerato già una volta. Hanno ucciso la donna che amavo, hanno macchiato di sangue la nostra terra. Lasciate che parli, che remi con voi."

Più o meno avrei voluto dire queste parole. Magari sarei riuscito giusto a brocciolarle, magari non le avrei dette con grande convinzione, forse sarebbero suonate come note stonate di un carillon arrugginito e basta. Fatto sta che non riuscii a parlare.
Nel momento in cui mi alzai in piedi qualcuno dei loro fece un movimento improvviso, come di bacino, e senza sapere come, mi ritrovai immerso nell’acqua, con le parole ancora sulla lingua.
Con grande sforzo le bevvi insieme a un po’ di acqua salata e le sentii scendere nei bassifondi del mio corpo, salate e ruvide.


Riemerso trovai con stupore la canoa ancora vicina, e una serrata di visi chinati a guardarmi. Qualcuno mi afferrò sotto le ascelle e mi riportò a bordo, con rapida fatica e sgocciolii di acqua annessi.
Riaprii gli occhi, li stropicciai per far passare il bruciore ed osservai da quella coltre appannata.

"Come stai?"

Non lo vedevo, ma riconoscevo la voce.
Ero morto, probabilmente, ero morto.
Distesi i pensieri a chiedere scusa a chiunque avessi fatto del male in vita e mi lasciai cadere al’indietro. Trovai il legno della barca, ed il suo saluto a ritmo di tonfi sordi e bernoccoli sulla testa.

Riaprii gli occhi, meno appannati stavolta. Lo vedevo, adesso, lo percepivo, la sua ligia coperta di silenzio ed attesa. Felipe.

Di scatto, facendo paura un po’ a tutti, mi buttai su di lui, lo abbracciai piangendo, e lui fece uguale, dandomi qualche colpetto sulla spalla. Ci fu solamente un piccolo problema: il mio impeto fece traballare la canoa, che ci riversò entrambi in acqua, con grande tonfo e risa sommesse di tutti.
Qualcuno si arrabbiò e ci promise che ci avrebbe fatto pagare quel casino: era questione di secondi e pochi decibel l’essere scoperti, e l’essere scoperti conduceva a fucilazione sicura.

Quando vidi per la prima volta il quadro di Goya che rappresenta la fucilazione, rimasi allibito. Quelli erano gli occhi, il volto, l’espressione, della gente che avevo realmente visto, la gente accanto alla quale avevo vissuto per anni. Ma questo era solo per dire che quel volto assomigliava terribilmente a quello di Felipe quando capì che la guardia costiera aveva scorto qualcosa in mare, ed iniziava a prendere le misure con i propri fucili e strilli.

Vedevamo l’acqua schizzare e nel volgere di pochi, snocciolati secondi una barca a motore staccò gli ormeggi. I proiettili fendevano l’aria e l’acqua: altro non c’era da fare che risalire in canoa e riprendere a remare, con tutta la forza possibile.

Nessuno alzava la testa, le braccia erano ferme intente nei soliti movimenti, di uomo in uomo, come macchine sincronizzate, i respiri parlavano all’unisono, i muscoli tesi nell’idea di non farsi raggiungere dal fascio di luce della navetta a motore.
Quella era la sola ed unica fortuna: l’esercito franchista, nonostante gli antichi appoggi italiani e tedeschi, non possedeva un grande apparato militare. Forse per la guerra civile, forse per l’economia autarchica, la Spagna somigliava a un pezzo di Africa che galleggiando si fosse incastrato per sbaglio nell’Europa.

Continuammo a remare, il capo chino sotto la luna che presto avrebbe lasciato posto al sole, non sapendo come sarebbe andata a finire. Voi che leggete siete chiaramente privilegiati: se è vero che sto scrivendo, è ancora vero che sono vivo e vegeto. Anche se per quanto ancora non si sa, ma temo non troppo.
Noi, su quella canoa a remare a pelo d’acqua, avevamo in dono un’alba dal futuro molto più che incerto.

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