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Trotskij, e lo stalinismo di ritorno

Da qualche tempo alcuni giovani compagni mi hanno segnalato inorriditi dei testi di apologia staliniana diffusi in rete da vari blog sulla cui copertina a volte troneggia il ritratto di Stalin. Uno di loro mi ha spedito il cap. 17°di un libro (La grande congiura contro l’URSS) grottescamente complottista, scritto da due stalinisti del PCUSA e pubblicato in tutto il mondo da editori legati ai partiti comunisti: in Italia Giulio Einaudi lo pubblicò nel 1948 senza vergognarsi, insieme ad altri capolavori di mistificazione come Il comunismo sovietico: una nuova civiltà dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, laburisti fabiani ostilissimi alla rivoluzione del 1917, e poi esaltatori di Stalin e dei processi in cui fu sterminata gran parte della generazione che aveva partecipato conruoli dirigenti alla rivoluzione d’Ottobre.

Non credevo che ci fossero ancora oggi persone capaci di ingurgitare romanzi dell’orrore in cui la storia è ridotta a un eterno complotto: io avevo solo 17 anni quando nel partito comunista argentino (che era il più stalinizzato dei partiti latinoamericani) mi avevano dato come testo di studio preliminare le Questioni del leninismo” e il Breve corso di storia del PC(b) dell’URSS: eppure avevo subito espresso dubbi che sarebbero stati poi presto accresciuti dal dibattito del XX Congresso del PCUS e soprattutto dall’esplosione delle rivolte operaie a Poznan e in Ungheria.

Non lo credevo possibile, ma sessant’anni fa non immaginavo neppure di dover assistere al ritorno di formedi barbarie che avevamo creduto scomparse, col diffondersi e consolidarsi degli integralismi a sfondo religioso (islamici e cattolici, evangelici ed ebraici), o di assurdi movimenti politici xenofobi, o anche del contrattacco bianco alle modestissime conquiste di diritti da parte degli afroamericani.

Non immaginavo di dover rispondere ai sostenitori della verità biblica, che considerano il mondo creato in 6 giorni, e sono sicuri che il sole si sia fermato per un giorno intero per consentire all’esercito di Giosuè di massacrare tutti i suoi nemici, realizzando così la violenta conquista della Palestina. Non immaginavo che dal già inquietante e cinico troncone della destra israeliana potesse venir fuori un Netanhiau capace di attribuire a un palestinese come il Muftì la responsabilità di aver spinto Hitler allo sterminio degli ebrei. Impunemente. Gli storici anche israeliani, anche sionisti, sanno che Amin Husaini era solo un nazionalista in cerca di appoggi per la sua causa, come il tunisino Bourghiba o l’indonesiano Sukarno, ma che importa ai fanatici arrivati in Israele dopo essere stati indottrinati nei gruppi estremisti ebraici negli Stati Uniti?

Fa il paio con le leggende su Trotskij che circolano in rete e che riprendono le più assurde calunnie staliniane: magari inventandosi un inverosimile incontro nell’Italia fascista del grande rivoluzionario e organizzatore dell’Armata Rossa con il teorico nazista Rosemberg per… suggerirgli l’invasione dell’URSS!

D’altra parte, anche nei paesi scandinavi un tempo modello di civiltà, vengono fuori squilibrati che pensano che i lager tedeschi si occupassero dell’igiene dei detenuti, e i forni servissero a disinfettare gli abiti, e che assaltano a colpi di ascia o di mitra degli innocenti giovani socialdemocratici.

Mi sento disarmato: da dove cominciare a spiegare che Trotskij era braccato in tutto il mondo da fascisti, socialdemocratici e stalinisti, respinto da tutti i governi borghesi esattamente perché era sempre considerato un pericoloso rivoluzionario? Posso ricordare che Churchill aveva dichiarato più volte il suo odio per il grande rivoluzionario: “Quel Trotskij è un perfetto diavolo. È una forza distruttrice e non creatrice. Sono completamente dalla parte di Stalin”, aveva dichiarato nel 1937 all’ambasciatore sovietico a Londra Ivan Maisky, di cui l’ultimo numero de Le monde Diplomatique ha pubblicato uno stralcio dalle memorie. Ma a che serve a chi non ha letto nulla, e vuole solo una bella favoletta sulla lotta manichea tra il bene e il male?

Provo intanto – senza troppe speranze – a rimettere in evidenza sul sito un testo che avevo scritto quando - per giustificare la scissione e la partecipazione a un governo prepotente e militarista - Armando Cossutta riprese l’armamentario staliniano, e costrinse Bertinotti a rispondergli polemicamente. Non ho tagliato i pochi accenni a quel dibattito, rimasto a metà e poi regredito presto. Questi rigurgiti staliniani (e disastrosi metodologicamente, perché spiegano gli avvenimenti storici a forza di complotti e di tradimenti di persone, non di forze sociali e politiche che si scontrano) sono anche il frutto del congelamento di quella discussione, che avrebbe dovuto, e non volle, affrontare lo stalinismo anche nella sua “traduzione italiana” di cui fu abile ispiratore Palmiro Togliatti. Il testo c’era già, ma all’interno di scritti più ampli. Come ci sono, nella sezione IL DIBATTITO SUL “SOCIALISMO REALE”, più di un centinaio di scritti polemici di veri periodi con i “giustificazionisti” e i “nostalgici” del socialismo reale. (a.m.28/10/15)
 
   

Un po’ di storia
Che vuol dire “trotskista”?

 
Se lo chiedeva anche Guevara, sentendo che i burocrati sovietici (e quelli cubani filosovietici) gli davano del “trotskista” per i suoi ultimi discorsi in cui criticava lo scarso impegno dei “paesi socialisti” in difesa del Vietnam, e anche la sostanziale complicità con l’imperialismo sul terreno dello scambio ineguale tra macchinari sovrapagati e materie prime sottopagate. E negli ultimi anni della sua vita cominciò a leggere e studiare Trotskij, per capire le ragioni delle tante scelte dell’URSS che egli non condivideva. Ne abbiamo finalmente prove più consistenti dei pochi accenni contenuti in qualche lettera e nelle testimonianze dei collaboratori, dato che sono stati trovati e pubblicati i suoi quaderni di studio in Bolivia, pieni di citazioni di Trotskij, appunto.
A quanto pare, è una vecchia abitudine liquidare come “trotskista” chi dice cose scomode. Vedremo perché e quando è cominciato, ma intanto sappiamo che almeno uno di quelli accusati di questa misteriosa “colpa”, Ernesto Che Guevara, è uno dei rivoluzionari al di sopra di ogni sospetto, e anzi un punto di riferimento permanente e sempre più attuale per chi vuole cambiare il mondo e non adattarvisi, ridipingendolo un po’ di rosa.
Giustamente Fausto Bertinotti, ha replicato a Cossutta che quando si tira fuori lo spauracchio del trotskismo, vuol dire che c’è ancora nostalgia dello stalinismo.
 
Trotskij non era “trotskista”
 
Il termine “trotskismo” non è mai stato usato da Leone Trotskij, né più né meno come vivo Lenin nessuno (tranne i suoi nemici) parlava di “leninismo”: il termine marxismo-leninismo è stato coniato dopo la sua morte da Stalin, che ha trasformato il pensiero vivo, e quindi a volte contraddittorio, dei due grandi rivoluzionari in un sistema dogmatico rigido, che aveva bisogno poi di un sommo sacerdote per proporre l’interpretazione “corretta”. Anche Marx disse che non era marxista.
Il termine tuttavia fu usato da Lenin in polemica con Trotskij negli anni tra il 1903 e il 1917, quando Trotskij fu, come e insieme a Rosa Luxemburg, un critico severo della concezione del partito proposta da Lenin. A sua volta Lenin era stato durissimo, come era consuetudine nelle polemiche interne al movimento operaio, con l’uno e con l’altra, e in particolare con il “trotskismo”.
I falsari staliniani hanno usato quelle polemiche, staccandole dal contesto e assolutizzandole. Quello che è assurdo è che anche nella stessa nuova sinistra di derivazione maoista si è ripresa – in perfetta malafede - la stessa forzatura, sorvolando su un piccolo particolare: Trotskij e Rosa Luxemburg polemizzavano allora contro il pericolo di una eccessiva centralizzazione del partito, anzi contro una possibile sostituzione del partito alle masse e del Comitato centrale al partito, ma in forma diversa hanno ammesso entrambi di essersi sbagliati.
Rosa non ha potuto farlo in un lavoro organico, perché non ha fatto in tempo, ma ha reso onore dal carcere alla lungimiranza di Lenin e del partito bolscevico nel suo scritto, per altri aspetti critico, sulla Rivoluzione russa. Trotskij lo ha detto più ampiamente e fin dalla primavera del 1917 si ricongiunge ai bolscevichi diventando “il migliore dei bolscevichi”, e difendendo fino all’ultimo giorno della sua vita la concezione del partito di Lenin.
La maggior parte della stessa “nuova sinistra” nata dopo il ’68 ha presto buttato alle ortiche Lenin, non solo sul partito, e riprende a volte (forzandole) le critiche di Rosa. Su Trotskij silenzio. Eppure diceva le stesse cose della Luxemburg. Io credo avesse ragione Trotskij quando si è autocriticato e che abbiano torto tutti quelli che buttano via Lenin e soprattutto il famigerato “centralismo democratico” (odiato solo perché con lo stesso nome si chiamava il regime autoritario esistente nei partiti comunisti stalinizzati). Ma Trotskij rimane un tabu. O non se ne parla, o se ne deve parlare male. Perché?
 
Un po’ di storia
 
Visto che viene evocata una vicenda lontana, presente nei miti e negli stereotipi negativi della sinistra, ma non nella sua cultura (non dimentico lo stupore e lo scandalo di alcuni compagni, oggi usciti con i “cossuttiani”, quando Fausto Bertinotti in “Tutti colori del rosso”, parlando delle letture che lo avevano formato, fece riferimento a Rosa Luxemburg e a “La rivoluzione tradita” di Trotskij), dobbiamo ricostruire alcuni dati di fatto.
 
Chi era Trotskij
 
La “colpa” principale che non è stata perdonata a Trotskij da tutti gli apologeti e dai tardivi “nostalgici” del regime staliniano è stata la lucidissima critica che ne fece dall’interno. E non certo perché fosse un “emarginato”. Negli anni tra il 1917 e il 1923 nessuno in Russia e nel mondo dubitava che dopo Lenin la figura più prestigiosa della rivoluzione fosse Trotskij. Era stato già presidente del Soviet di Pietroburgo nel 1905, e fu di nuovo la figura pubblica più eminente nei mesi febbrili che precedettero l’Ottobre. Oratore eccezionale che infiammava le folle, fu anche paziente organizzatore dell’insurrezione (la tanto vituperata “presa del palazzo d’Inverno”, che oggi nel linguaggio della sinistra, compresa la “nuova”, è diventata sinonimo di qualcosa da evitare accuratamente…). Commissario del popolo agli Esteri, poi organizzatore dell’Armata Rossa, con cui visse gli anni più duri della guerra civile in prima linea, sul leggendario treno blindato, era adorato dai giovani ufficiali proletari forgiatisi nella lotta.
Forse anche per questo, già nell’anno della lunga agonia di Lenin, cominciò una campagna di denigrazione contro Trotskij, accusato di volere il potere personale, di essere un “bonapartista”, e soprattutto di non essere stato un “bolscevico doc” tra il 1903 e il 1917, per le sue critiche ai pericoli di involuzione autoritaria del partito.
L’accusa era del tutto priva di fondamento. Egli rinunciò sdegnato a tutte le cariche, e a chi gli domandava anni dopo perché non avesse usato l'Armata Rossa per fermare Stalin e la burocratizzazione, rispose che se lo avesse fatto avrebbe accelerato e non fermato l’involuzione. Il ricorso all’esercito, anche se è il più democratico del mondo come l’Armata Rossa di allora, non può mai garantire la democrazia.
La ragione di tanta ostilità (a parte l’invidia dei mediocri nei confronti di un leader tanto amato) era dovuta al fatto che già nel 1923 Trotskij aveva colto, insieme a molti dirigenti prestigiosi del partito e dello Stato sovietico, i pericoli di involuzione che si delineavano non solo per l’immensa burocratizzazione, ma per le tendenze filocapitalistiche che comparivano come sottoprodotto della NEP.
Su questi aspetti, che è ovviamente impossibile sviluppare in questa sede, oltre al libro fondamentale di Edward Carr sull’URSS (Storia della rivoluzione sovietica, Einaudi, Torino, 1964-1984, purtroppo in ben nove grossi tomi), e alla sintesi stesa dallo stesso Carr, La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929), Einaudi, Torino, 1980, rinvio anche al mio libro Intellettuali e potere in URSS (1917-1991), Milella, Lecce, 1995. [sul sito: Intellettuali e potere in URSSCronologia 1812-1956 ]
 
Il ruolo di Stalin
 
Stalin era il vero regista della campagna contro il “bonapartismo” di Trotskij. Tuttavia, essendo praticamente sconosciuto e tutt’altro che brillante (non parlava neppure bene il russo), fu sottovalutato da Trotskij e un po’ da tutti, dato che appariva solo il “braccio” di altri dirigenti, come Kamenev e Zinov’ev prima e poi Bucharin, che egli invece utilizzò e poi liquidò brutalmente. Il suo potere cominciò a crescere nell’ombra solo nel 1922, l’ultimo anno in cui Lenin poté occuparsi del partito. Basta leggere “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” di John Reed per comprendere che nel 1917 Stalin non era nessuno. E la carica di cui si impossessò e che fu la leva per il potere era originariamente tecnica: “segretario” era chi curava i rapporti del gruppo dirigente con la periferia. Fino alla sua morte nel 1919 tale compito era stato assolto da Jacob Sverdlosk con l’aiuto di un numero esiguo di compagni. Dal VI congresso del 1919 la segreteria diventa un organo collegiale, in cui tuttavia nessuno è membro dell’Ufficio Politico, che ha compiti di direzione tra un comitato centrale e l’altro. Il coordinamento è affidato nel 1919 a Elena Stasova, l’anno successivo a Krestinskij, e nel 1921 a Molotov, e solo nel 1922 a Stalin, che si presenta come segretario generale (cioè coordinatore degli altri segretari, non capo supremo!). Sia chiaro: questa carica, passata poi in tutti i partiti comunisti negli anni successivi, non era mai stata di Lenin! Da quella posizione tuttavia, approfittando delle difficoltà organizzative del periodo successivo alla guerra civile, Stalin comincia a designare i suoi uomini in periferia. Lenin denunciò il pericolo nella sua lettera al congresso, più nota come Testamento politico, ma non fu ascoltato.
Nel giro di pochi anni tutte le cariche in URSS cessano di essere elettive, i dirigenti periferici sono nominati dall’alto e quindi rispondono non alla base ma a chi li ha designati. È la base del potere personale di Stalin. L’apparato a disposizione del segretario si gonfia fino a raggiungere decine di migliaia e poi centinaia di migliaia di funzionari fedeli al capo. Successivamente (già per iniziativa di Zinov’ev, che lo definiva bolscevizzazione) il meccanismo comincia ad essere esteso ai partiti comunisti di altri paesi.
Per cominciare a creare il culto di Stalin “infallibile” come un papa, bisognerà arrivare al 1929. A quel punto erano state liquidate successivamente l’Opposizione di sinistra (a Trotskij si erano uniti la vedova di Lenin e anche Zinov’ev e Kamenev, ex complici di Stalin, che avevano denunciato a partire dal 1925 i metodi con cui gli organi dirigenti venivano aggirati dalla frazione segreta di Stalin) e la cosiddetta “opposizione di destra” di Bucharin, Rykov, capo del governo, e Tomskij, leader dei sindacati.[1] Ma ancora nel 1934, nel congresso detto “dei vincitori” perché erano già state soppresse tutte le opposizioni interne, ci furono critiche e voti contrari alla candidatura di Stalin. L’assassinio del suo principale collaboratore e ora divenuto moderatamente critico, Kirov, fu attribuito falsamente all’opposizione e servì da pretesto allo sterminio di massa iniziato subito dopo, in cui morirono tra l’altro il 70% dei delegati al congresso del 1934 e degli stessi membri del CC eletto in quell’occasione, tutti staliniani (oltre a quelli che erano stati realmente oppositori).
 
Trotskij al confino e in esilio
 
Appena iniziata la campagna contro di lui, Trotskij aveva rinunciato sdegnosamente a ogni carica, pensando di combattere una battaglia politica nel partito; ma il controllo burocratico fu tale che i congressi furono prima truccati, poi trasformati in plebiscito. Nell’ultimo periodo di vita Lenin aveva insistito perché Trotskij assumesse anche la carica di capo del governo, ma egli aveva rifiutato, preoccupato che i nemici esterni ed interni usassero (come usarono) la sua origine ebraica per bassi attacchi. Espulso nel 1927 per aver tentato di riprodurre al ciclostile un documento, che a norma di statuto avrebbe dovuto essere stampato nell’organo del partito, e per aver portato nelle celebrazioni del decennale del 7 novembre uno striscione contro la burocrazia e per la democrazia sovietica, fu poi deportato nel lontano e isolato Kazachstan, e successivamente imbarcato a forza in una nave diretta in Turchia, dove fu confinato su un’isoletta, vicina al luogo in cui oggi è detenuto Očalan. Braccato in tutto il mondo, cacciato da ogni paese come rivoluzionario e intanto calunniato come “fascista” e complice dell’imperialismo, Trotskij trovò alla fine un solo paese disposto ad accoglierlo, il Messico rivoluzionario di Lazaro Cardenas, che stava rilanciando la riforma agraria e nazionalizzava il petrolio, ma dopo vari tentativi falliti un sicario di Stalin riuscì ad assassinarlo nell’agosto 1940.
A distanza di tanti anni, le calunnie contro di lui sono state riproposte ogni anno, magari ritoccandole, chiamandoloagente del nazismo quando l’URSS si alleava con l’imperialismo franco-britannico, poi agente britannico nel biennio di idillio staliniano con Hitler; gli ideologi stalinisti che oggi svolgono il loro sporco lavoro per Eltsin, non dicono più che era un servo dell’imperialismo, ma che era un estremista pericoloso, un avventuriero irresponsabile che voleva promuovere rivoluzioni dappertutto (più o meno le accuse dei comunisti ufficiali a Guevara negli ultimi suoi anni). L’importante è che non si leggano gli scritti di Trotskij, soprattutto perché continuano a essere attualissimi.
Nel più famoso di essi, La rivoluzione tradita, che è del 1936, dopo aver esaltato le conquiste fatte dall’URSS nonostante la direzione burocratica, concludeva con la previsione che in caso di crollo del paese una parte della burocrazia si sarebbe messa a disposizione del nemico imperialista. Accadde già nel 1941-1945, quando Hitler trovò non pochi collaborazionisti anche tra gli alti ufficiali, ma soprattutto dopo il 1989-1991, quando quasi tutti i burocrati “comunisti” sono diventati “democratici” filocapitalisti e complici dell’imperialismo.
In tutti gli scritti di Leone Trotskij, ad esempio quelli che riflettono la sua attività di dirigente dell’Internazionale Comunista tra il 1919 e il 1925, si nota una grande ricchezza analitica: fu il primo a cogliere il nuovo ruolo degli USA sulla scena mondiale, e a intuire che il capitalismo negli anni Venti si stava riorganizzando. La sua analisi del fascismo rimane insuperata, ma fu dimenticata negli anni in cui i partiti comunisti stalinizzati consideravano i socialisti “nemico principale” e non esitavano ad allearsi con Hitler.


La sua sconfitta fu il riflesso della distruzione, nella guerra civile e nei convulsi processi successivi, di quella classe operaia russa che era stata protagonista delle rivoluzioni del 1905 e di quella del 1917. Il punto debole della proposta di Trotskij è che faceva appello alla democrazia operaia e alla coscienza di classe di una classe operaia che non c’era più, o comunque non era più la stessa.
 
Perché una lotta così implacabile contro uno “sconfitto”?
 
Tutti i luoghi comuni seminati dallo stalinismo ripetono “Trotskij è morto e sepolto”, “È una cosa del passato che non interessa nessuno” oppure “I trotskisti sono sterili e non hanno mai concluso niente”. Allora perché tanta tenacia nel combatterli? Perché finché c’è stata l’URSS a Mosca uscivano ogni anno opuscoli in tutte le lingue per denunciare le sue colpe e “smascherare i trotskisti”, se non contavano niente e le loro idee erano “sorpassate” e “sconfitte”? Forse proprio per la ragione opposta a quella dichiarata. A parte che i rivoluzionari (e quindi anche Stalin e i suoi successori, che lo erano stati) hanno sempre saputo che certi sconfitti sono più vivi dei loro vincitori. Chi ha dimenticato Spartaco? E chi ricorda invece il console Crasso, che lo vinse? Guevara è infinitamente più vivo di Mario Monje, che lo tradì, dei vari Arismendi o Corvalán o Giorgio Amendola che lo derisero, e che tutti hanno dimenticato.[2]
Il contributo più prezioso e insostituibile di Trotskij è appunto l’analisi delle contraddizioni dell’URSS, del ruolo della burocrazia. Non “demonizzante”, o “speculare a Stalin” come dicono alcuni ignoranti (alcuni di essi perfino da una cattedra universitaria), ma un’analisi ricca e dialettica. Anche quando Stalin gli aveva assassinato i figli, i migliori amici e collaboratori, e lo stava braccando in ogni parte del mondo, Trotskij non ha mai ceduto a una visione criminalizzante; casomai ha analizzato la politica di Stalin come suicida, perché non si rendeva conto che apriva le porte a Hitler. Nonostante questo, anche dopo crimini come il patto Ribbentrop-Molotov con la brutale spartizione della Polonia, le annessioni del Baltico, la deportazione in Siberia e lo sterminio di centinaia di migliaia di polacchi (compresi i soldati e gli ufficiali che sarebbero stati poi necessari per la lotta contro l’aggressione nazista), Trotskij ribadì sempre che il movimento comunista e la Quarta Internazionale[3] dovevano continuare a difendere l’URSS, perché era oggettivamente antagonista a Hitler anche se Stalin brindava alla sua salute e gli consegnava 2.000 comunisti tedeschi e austriaci, tra cui molti ebrei, votandoli a sicura morte.
 
Il contributo di Trotskij al pensiero marxista
 
Ma anche su altre questioni il contributo di Trotskij è stato prezioso. Ha difeso il patrimonio essenziale del marxismo in anni in cui la teoria era ridotta a semplice abbellimento a posteriori delle scelte fatte per ragioni empiriche, e non sempre confessabili. Ad esempio il “socialismo in un paese solo” era assolutamente inconcepibile per Marx, Lenin o qualunque teorico marxista; il concetto fu difeso da Stalin, facendo confusione tra la presa del potere (ovviamente possibile) e la costruzione del socialismo. Per calunniare chi si opponeva si diceva che “non voleva il socialismo”, mentre il problema era un altro: se era possibile costruire il socialismo in un paese isolato, circondato da paesi capitalisti, con una grande massa contadina arretrata e abituata all’ubbidienza cieca (salvo esplodere a volta in rivolte disperate). L’esperienza ha confermato che quel che si è costruito non era socialismo, non foss’altro per le enormi sperequazioni sociali tra i privilegi della burocrazia e le condizioni delle masse, private non solo di molti beni essenziali, ma anche di un minimo di informazioni sulle scelte, per non parlare della possibilità di intervenire su di esse. Sono soprattutto la miseria e l’arretratezza che facilitano la fine dell’egualitarismo e la formazione di privilegi per pochi, che si appropriano di una parte crescente del prodotto del lavoro di tutti.
Per questo l’URSS e il suo sistema sono crollati miseramente e così facilmente. Che poi i regimi successivi siano ancora peggiori, non dimostra nulla, dato che in tutti i paesi sorti dal crollo i dirigenti sono gli ex “comunisti”. Bell’allevamento di vipere e di ipocriti avevano fatto Stalin e i suoi degni successori, da Chrusciov a Breznev, fino a Gorbaciov e Eltsin…
Va precisato inoltre che la definizione dell’URSS come “Stato operaio degenerato”, tanto rimproverata a Trotskij anche dalla nuova sinistra, era stata formulata inizialmente già nel 1920 dallo stesso Lenin, che aveva parlato, in polemica con Bucharin, di uno “Stato operaio con due particolarità: una netta maggioranza contadina e una forte deformazione burocratica”. La formula, come tutte quelle sintetiche, è discutibile, e io personalmente non la uso da molti anni, per non trovarmi a litigare sterilmente con chi si indigna per lo “Stato operaio” e chi per il “degenerato”. Ma era di gran lunga più efficace di quella che la nuova sinistra ha raccattato dalla socialdemocrazia, che parlava fin dagli anni Venti di “capitalismo di Stato”. Se fosse stata già capitalistica l’URSS non avrebbe avuto tutte le difficoltà che ha avuto e che ha nell’instaurare un “normale” sistema capitalistico funzionante più o meno come da noi. Ma questa è un’altra questione.
Trotskij ha difeso e sviluppato un’analisi marxista quando il movimento comunista procedeva a sbalzi e zig-zag, passando da un’idea all’altra con la massima disinvoltura. Negli anni 1929-1934 l’Internazionale comunista abbandona le sue precedenti analisi del fascismo, e lo considera uguale a qualsiasi regime borghese (per cui tutti vengono definiti “fascisti”, e diventa perfino possibile allearsi con i nazisti contro i socialdemocratici-“socialfascisti” come avvenne in Germania nel 1932, pochi mesi prima della vittoria di Hitler); Trotskij viene deriso come “allarmista” anche e soprattutto da Togliatti perché tra il 1929 e il 1932 denuncia il pericolo fascista in Germania.
Subito dopo si passa all’eccesso opposto, e per fronteggiare Hitler invece del Fronte Unico Proletario rifiutato fino a poco prima, si propone un Fronte Popolare in cui ci sono, in Francia e in Spagna, importanti esponenti della borghesia. Il programma è quindi di fatto il loro, con conseguenze tragiche sulla questione coloniale (le colonie non si toccano e si affidano anzi a generali conservatori che si riveleranno filofascisti). Il Fronte Popolare non è l’allargamento del Fronte unico di classe, ma la sua negazione. Per fare un esempio esopico, è più o meno come se i topi minacciati da un famelico gatto si coalizzassero... con un altro gatto. Comunque i risultati sono stati catastrofici sia in Spagna che in Francia, ma nessuna riflessione è stata mai fatta. I Fronti Popolari sono evocati nell’immaginario collettivo del popolo comunista come un mito eroico e basta. Si ripete “No pasarán!” e non ci si domanda come e perché i fascisti passarono.
Negli anni dei Fronti Popolari, inoltre, i partiti comunisti non parlavano più dell’imperialismo francese o di quello britannico, che Stalin voleva avere come alleati contro la Germania nazista, dimostrando loro che solo lui era in grado di fermare i processi rivoluzionari in Europa. Per questo nel suo linguaggio c’era solo l’imperialismo tedesco. Ma nel 1939, cambiate le alleanze, l’URSS, e dietro ad essa tutti i partiti comunisti, denunciarono “l’aggressività dell’imperialismo franco-britannico” ed elogiarono le “proposte di pace di Hitler”. Una vergogna indelebile. Anche per essersi opposto a quella politica sciagurata, che ha portato i partiti comunisti a praticare la collaborazione di classe non meno dei socialdemocratici da cui si erano divisi vent’anni prima, Trotskij è stato odiato e calunniato implacabilmente, con la forza di un apparato mondiale di propaganda paragonabile (per omogeneità e diffusione capillare nel mondo) solo a quello del Vaticano.
 
La battaglia per ricostruire un’Internazionale
 
Trotskij scrive negli anni dell’esilio che quel che aveva fatto in passato poteva essere stato fatto anche da altri, e che il suo ruolo alla testa dello Stato sovietico e dell’Armata Rossa non è stato il suo contributo fondamentale al movimento operaio. Egli pensa al contrario che quel che di più importante ha fatto nella sua vita è stata la difesa del marxismo mentre veniva prostituito agli interessi contingenti di una burocrazia ottusa e cinica.
Trotskij si dedica soprattutto a costruire una nuova Internazionale, la Quarta, quando vede nel 1933 che la Terza Internazionale, ormai piegata ai voleri di Stalin, rifiuta perfino di prendere atto della tragedia rappresentata dalla vittoria di Hitler (si continua a dire che la situazione è ottima ed eccellente, e che la rivoluzione in Germania è imminente). Non pensa a un’Internazionale dei “trotskisti”, ma a quella di tutti quelli che vogliono ancora combattere il capitalismo e si oppongono allo stalinismo. I primi tentativi sono fatti con raggruppamenti comunisti e socialisti di sinistra di varia provenienza. Se i tentativi non vanno in porto, non è mai per ragioni ideologiche settarie, ma la rottura avviene quando rinunciano a principi fondamentali, ad esempio quando il POUM spagnolo collabora con forze borghesi nel governo di Fronte popolare in Catalogna (salvo essere ugualmente accusato di “trotskismo”, calunniato e perseguitato).
Molti hanno deriso questa difficile battaglia, magari ironizzando sul modesto numero di coloro che, dopo cinque anni di tentativi, parteciparono al congresso di fondazione della Quarta Internazionale. Erano pochi, ma avevano ragione loro e non Stalin, che aveva subordinato il movimento operaio agli imperialisti francesi e britannici, che in quello stesso settembre 1938 stavano dando via libera a Hitler in Cecoslovacchia con gli accordi di Monaco; avevano ragione quei pochi comunisti controcorrente, e non Stalin, che poco tempo dopo si sarebbe illuso di evitare la guerra accordandosi con Hitler per la spartizione dell’Europa orientale.
Stalin aveva ridotto la Terza internazionale a un volgare e rozzo strumento di trasmissione degli interessi della burocrazia sovietica nel mondo, poi l’ha sciolta nel 1943 per tranquillizzare gli imperialisti statunitensi e britannici, suoi nuovi alleati. Perché i partiti comunisti non hanno fatto nulla per ricostituirla in questi decenni, mentre era evidente che gli organi di centralizzazione politica, militare ed economica dell’imperialismo si sono rafforzati in un mondo sempre più unificato? Per questo la Quarta Internazionale, senza pretendere di essere quel che sarebbe necessario nel mondo di oggi, ha finito per essere l’unico nucleo che ha mantenuto vivo in anni difficili non solo il pensiero marxista classico, ma anche un funzionamento internazionale (che impedisce o riduce il pericolo degli adattamenti alle pressioni locali).
 
Perché i PC hanno seguito Stalin
 
Sui crimini di Stalin, tranne pochi residuati “nostalgici”, potrebbero essere oggi d’accordo quasi tutti. Più difficile fare i conti con quello che l’epoca staliniana ha lasciato nell’eredità degli stessi partiti comunisti più “antistaliniani”. Prima di tutto nella concezione del partito, o “forma-partito” come è di moda dire. Ad esempio, ogni volta che si nomina il “centralismo democratico”, tutti inorridiscono. Eppure sarebbe bello se nel PRC vigessero le norme democratiche in vigore nel partito bolscevico. Non solo prima del 1917, ma anche durante tutti gli anni terribili della guerra civile, quando il potere sovietico era appeso a un filo, nel partito bolscevico c’era non solo il diritto ditendenza ma perfino quello di frazione. Vuol dire che nei congressi si potevano presentare documenti diversi con pari diritto, ed era possibile il raggruppamento pubblico tra un congresso e l’altro dei sostenitori di una posizione rimasta in minoranza (che solo così poteva accettare la disciplina, dato che poteva al tempo stesso lavorare per diventare maggioranza al congresso successivo, e i congressi erano ravvicinati (tra il 1917 e il 1923, uno all’anno).
Pari diritti voleva dire anche che se il relatore di maggioranza parlava due ore, anche chi presentava l’altra posizione doveva avere uguale tempo e non un quarto d’ora come oggi. Nella concezione di Lenin, inoltre, l’organo sovrano era il Congresso, e tra un congresso e l’altro il Comitato centrale. L’Ufficio politico doveva solo applicare la linea tra una riunione e l’altra del Cc, non sostituirsi ad esso, come è accaduto, e ancor meno la Segreteria, che era allora solo un organo tecnico di esecuzione delle decisioni. Nei partiti comunisti stalinizzati, invece, si considerava sovrana la Segreteria.
Ma come è stato possibile che tutti i partiti comunisti abbiano accettato una direzione autoritaria e a volte insensata che decideva tutto da Mosca? Prima di tutto dobbiamo ricordare come è nata l’Internazionale comunista: sull’onda della delusione e lo sdegno per il tradimento dell’Internazionale socialista, e dei principali partiti operai, nascono piccoli gruppi che combattono la guerra e hanno come punto di riferimento l’atteggiamento coerente del partito bolscevico. Ma sono in genere giovani e inesperti, e fanno molti errori, anche quando nel 1919 nasce finalmente la nuova Internazionale. La Terza Internazionale nasce molto aperta e non dogmatica: Lenin dice che bisogna costruirla con tutti quelli che combattono il capitalismo e si oppongono al riformismo e alla collaborazione di classe, anche se hanno idee diverse dai bolscevichi. “La stiamo costruendo”, dice nel 1920, “anche con tendenze semianarchiche e persino anarchiche.”
Molti partiti, a partire da quello italiano e quello tedesco, fanno errori di estremismo e settarismo. Vengono criticati da Lenin e Trotskij, ma senza la minima misura amministrativa o imposizione di cambi nel gruppo dirigente. Anche Gramsci, ad esempio, condivise in quei primi anni il settarismo di Bordiga, Terracini ed altri nei confronti del partito socialista, e stentava a capire perché dopo essersi separati da esso dovessero riproporre azioni comuni (il “fronte unico” contro il fascismo, appunto).
Quando la verifica delle conseguenze degli errori fatti spinse la maggior parte dei partiti comunisti ad accettare – con tre o quattro anni di ritardo – le critiche dell’Internazionale, questa era mutata profondamente, e pretendeva ben altro, anche se si dovrà aspettare fino al 1928 perché si arrivi a sostituire una direzione eletta, come avvenne in Germania, dove fu imposto nuovamente al partito Ernst Thaelmann, che era stato destituito per gravi mancanze.
Intanto, anche per gli errori del movimento comunista (e i crimini socialisti), il fascismo aveva trionfato in Italia e veniva imitato da molti regimi autoritari dai Balcani alla Polonia. I partiti comunisti, fuori legge quasi ovunque, avevano bisogno sia di aiuti materiali, sia di certezze gratificanti e si adattarono dunque alle pressioni dei nuovi dirigenti della Terza Internazionale. Lo fece inizialmente anche Gramsci, ma quando si accorse di cosa stava accadendo in URSS scrisse già nel 1926 (quando si era ancora lontani dalle espulsioni, dalle deportazioni, dagli assassinii degli oppositori) una lettera di severa critica al CC del PC russo, che fu intercettata e bloccata da Togliatti, che rappresentava il partito a Mosca. L’episodio è stato sempre minimizzato da quelli che partono dalla radicata convinzione che tutto quel che è accaduto doveva accadere, e che ogni tentativo di opporvisi era ovviamente vano, come deducono… dal fatto che è fallito. Gramsci la pensava diversamente. Nella sua risposta personale a Togliatti, che aveva sostenuto che i partiti comunisti dovevano limitarsi a “studiare le questioni russe” e a farle conoscere, senza interferire, Gramsci aveva dato un giudizio severissimo sull'episodio: “questo tuo modo di ragionare [...] mi ha fatto un impressione penosissima”, scrive; infatti “tutto il tuo ragionamento è viziato di burocratismo”. La frase più dura, tuttavia, che lasciava intravedere una rottura di rapporti umani e politici, investe alla radice la mentalità di Togliatti: “Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi ed irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità”.
Così la pensava Gramsci, che rimase anche per questo isolato in carcere. Non si cercò di ottenere la sua liberazione con uno scambio di prigionieri tra l’URSS e il Vaticano, che era possibile; per anni non si parlò di lui, fino a quando la campagna per la sua liberazione ricominciò … alla vigilia della sua morte e quando ormai era ridotto a una larva umana, che non avrebbe in nessun caso potuto riprendere l’attività politica. Dopo la sua morte, Gramsci divenne per Togliatti quel che Lenin era per Stalin (tra l’altro gli mise in bocca frasi mai pronunciate come “Trotskij è la puttana del fascismo”).
Lo stesso avvenne in quasi tutti i partiti comunisti nel corso degli anni Trenta: vennero allontanati quelli che avevano avuto un ruolo nei primi anni, tutti accusati di “trotskismo”. Alcuni raggiunsero effettivamente il movimento per la Quarta Internazionale, da .Pandelis Pouliopoulos segretario del PC greco, a Chen Du-tsiu, primo segretario del Pc cinese.
Anche tre su sei membri dell’Ufficio Politico del PCd’I (il settimo era Gramsci, in carcere, nelle condizioni che abbiamo descritto) furono espulsi dagli altri tre, che per avere la maggioranza diedero voto effettivo al rappresentante dei giovani, Pietro Secchia, che in base allo Statuto lo aveva solo consultivo. I tre espulsi erano Pietro Tresso, Alfonso Leonetti, Paolo Ravazzoli, di cui quasi nessuno nel PCI del dopoguerra ha saputo mai nulla, e tanto meno che la loro posizione nel 1929-1930 coincideva – senza che lo sapessero – con quella di Gramsci in carcere. Ancor meno si sa che i tre, quando capirono che le loro critiche alla folle politica estremista del Comintern coincidevano con quelle di Trotskij, si avvicinarono a lui e al movimento per la Quarta Internazionale. Meno ancora si sa che Pietro Tresso, catturato dai nazisti mentre era partigiano in Francia, fu “liberato” da un commando del PCF che assaltò la prigione, e che subito dopo uccise lui ed altri trotskisti. La vicenda dell’espulsione dei “Tre” è stata ricostruita egregiamente da Paolo Spriano, militante e dirigente del PCI, ma prima di tutto storico di grande onestà.
 
 
Trotskismo e stalinismo: chi deve vergognarsi?
 
La riscoperta della discriminante antitrotskista da parte di Cossutta (che lascia spazio a un recupero del vecchio repertorio stalinista) è la conseguenza di un elemento che avevamo segnalato da tempo. Il PRC non ha mai affrontato una discussione sulle cause del crollo dell’URSS, che pure figurava tra i suoi compiti iniziali. Ciò ha permesso la sopravvivenza di sacche di “nostalgici” che continuano a credere che il sistema sovietico fosse perfetto e sia caduto solo per il papa o le “manovre della CIA”. È una spiegazione penosa, perché le manovre della CIA o dei servizi segreti inglesi, ecc. ci sono state fin dal giorno della vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, e di papi reazionari e anticomunisti ce ne sono stati tanti (basti pensare al filonazista Pio XII), ma tutto ciò non è mai riuscito ad avere successo, perché in URSS, soprattutto nei primi anni, c’era un consenso larghissimo. Anche nelle fasi successive, in cui la debolezza politica del regime staliniano si manifestava nell’uso sempre più massiccio di una repressione indiscriminata, c’erano ancora ragioni profonde di attaccamento a quanto rimaneva delle conquiste dell’Ottobre. Le manovre sono riuscite quando i dirigenti “comunisti” da Breznev a Gorbaciov a Eltsin, da Milosevic a Tudjiman, da Zivkov a Ceausescu, da Ramiz Alia a Sali Berisha, non credevano più a nulla e non venivano più creduti da nessuno, ma pontificavano in nome del “comunismo”.
I nemici del comunismo hanno usato i crimini di quei personaggi per screditare il progetto grandioso di Marx e di Lenin; anche gli imbecilli hanno abboccato e… per “difendere il comunismo” hanno difeso i crimini di quei cinici usurpatori. Così, anche dopo la crisi, tanti compagni si sono arroccati nella “nostalgia” e trincerati dietro una spiegazione puerile, che attribuiva tutto alle “manovre” e a singoli traditori. Anche diversi intellettuali hanno continuato a non riflettere su una delle più grandi tragedie del nostro secolo – l’involuzione, declino e crollo del movimento comunista – contìnuando a dare per scontato che chi si diceva comunista lo fosse.
Eppure non si tratta di un caso unico nella storia: basti pensare alla Chiesa cattolica, che per secoli e secoli è stata rappresentata da papi spergiuri, assassini, che violavano tutti i comandamenti possibili e commettevano tutti i peccati immaginabili, ma erano gli unici a poter parlare in nome di Cristo (chi tentava di farlo riferendosi ai Vangeli, veniva incarcerato o bruciato vivo). Dal momento che Alessandro VI Borgia, il padre (e amante) della famosa avvelenatrice Lucrezia Borgia e del duca Valentino si diceva cristiano, dobbiamo difendere gli avvelenamenti, gli incesti, ecc. e considerarli la concretizzazione del messaggio evangelico? Alessandro VI e Stalin sono due usurpatori di un pensiero che usavano cinicamente e con cui non avevano nulla in comune.
Nel corso degli anni ho incontrato nel PCI e anche nel PRC molti stalinisti (tra cui una macchietta che qui a Lecce continua a difendere sui giornali locali, nei comizi e in ogni occasione, il regime albanese e persino quello rumeno). Tutto quel che si diceva “comunista” li esaltava. Se fossero stati cristiani sarebbero stati con Alessandro VI, non con i fautori di un ritorno alle origini evangeliche. A questa gente, in mancanza di altri argomenti, ha fatto appello Cossutta. Ovviamente questi sono accaniti nell’aggredire Trotskij e i “trotskisti”, di cui non hanno mai letto una sola pagina.
Di fatto si direbbe che la colpa principale dei trotskisti sia quella di aver capito le radici profonde della crisi del sistema sorto intorno all’URSS con molti decenni di anticipo su altri (qualcuno anzi non se ne è ancora accorto...). Quando Cossutta polemizzava con Berlinguer rimproverandogli la sua timida dissociazione dall’URSS di Breznev entrata in una fase di decomposizione, i trotskisti avevano già colto da tempo la dinamica che portava al crollo. E a Trotskij e al movimento trotskista si è ispirato Che Guevara negli ultimi anni della sua vita, come ora è stato documentato dal ritrovamento dei suoi appunti di Bolivia. È rimasto in larga misura inedito, proprio per questo: il regime sovietico sapeva solo imbavagliare e usare una vana censura, illudendosi di superare con la violenza repressiva le proprie contraddizioni, e il governo cubano – per molti anni dipendente dall’URSS per il petrolio, e tutto il commercio estero – ha dovuto adeguarsi.
Il movimento trotskista, che negli anni Trenta era più forte di quello filosovietico in Vietnam e in molti paesi dell’America Latina, non ha pagine vergognose da nascondere, ma un lungo martirologio di compagni assassinati, dai nazisti come dagli stalinisti. Lo stalinismo invece rappresenta una vergogna permanente per il movimento operaio: ha allevato tanti dirigenti diventati oggi filocapitalisti, ha cancellato ogni traccia e ogni ricordo della democrazia interna che vigeva nello stesso partito bolscevico e nell’Internazionale comunista ai tempi di Lenin e Trotskij, ha sterminato il 90% dei dirigenti della rivoluzione d’Ottobre e perfino più comunisti tedeschi di quanti ne abbia assassinati Hitler. Solo l’ignoranza può lasciare spazio alla nostalgia dello stalinismo, che ha portato alla rovina tanti gloriosi partiti comunisti, eliminandone i migliori dirigenti e sostituendoli con docili pedine della burocrazia sovietica. (2-11-1998).[4]

[1] Cosiddetta, perché in realtà Bucharin e i suoi amici politici, avendo collaborato con Stalin a mutare il regime interno del partito perseguitando ogni dissenso, pur dissentendo da Stalin non riuscirono a formulare una piattaforma alternativa e a lottare contro l’involuzione del partito e del paese, ma furono attaccati prima con calunnie di ogni genere da cui non ebbero la possibilità di difendersi, e poi furono processati e assassinati (anche se formalmente Tomskij si sottrasse al processo e alla liquidazione suicidandosi).
[2] Questi nomi non dicono nulla ai giovani di oggi: Mario Monje fu il segretario generale del PC boliviano che abbandonò Guevara in una zona inadatta alla guerriglia, interrompendo ogni contatto con le città e le miniere in cui moltissimi comunisti volevano sostenerlo e raggiungerlo (oggi vive a Mosca come imprenditore, trafficando con gli ex comunisti della cerchia di Eltsin); Arismendi era il leader del partito comunista uruguayano, e Corvalán di quello cileno, che derisero il tentativo di Guevara; Giorgio Amendola fu uno dei principali esponenti del PCI, esponente della destra riformista interna al partito e al tempo stesso “giustificazionista” nei confronti della storia dell’URSS staliniana e di quella dello stesso PCI (scrisse una Storia del PCI in aperta polemica con quella di Spriano, il grande storico che apparteneva al suo stesso partito ma non taceva nulla degli errori e delle aberrazioni del passato. È qui ricordato perché aveva definito Guevara uno “stratega da farmacia” poco prima della sua morte.
[3] Vedi il paragrafo successivo.
[4] Il testo di questo paragrafo è ricavato da un più ampio articolo scritto subito dopo la scissione del PRC, in risposta ad Armando Cossutta che aveva sostenuto che la votazione del CPN del 3-4 ottobre 1998 in cui era rimasto in minoranza non era valida perché una parte dei voti erano della ex minoranza che lui definiva “trotskista” e che invece raccoglieva dirigenti del PRC di varia provenienza, di cui in altre occasioni aveva accettato senza problemi i voti.

 

Foto: LF Reiz/Flickr

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