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 Home page > Tribuna Libera > Sulla sentenza Thyssen Krupp

Sulla sentenza Thyssen Krupp

Riflessioni sulla sicurezza del lavoro,  sulla responsabilità sociale e delle aziende.

Sicuramente la sentenza è severa, molto severa. Da manager e, per giunta, con tutte le deleghe alla sicurezza, sono anche un po’ preoccupato. L’idea che un incidente, per quanto serio e grave, sia giudicato “doloso” mi sembra un po’ punitiva. Questo è però il responso della corte di Torino sul caso Thyssen Krupp, che, per certi versi, ritengo esemplare e sul quale, passato il clamore mediatico, mi sento di fare qualche riflessione. Certamente negli ultimi anni abbiamo tutti preso maggior coscienza della centralità della persona e della sicurezza nella società e nell’industria. 

Chi come me, ormai da anni, si occupa di operation sa bene che, forse a seguito di una normativa più puntuale ed esigente, o forse per una naturale maturazione professionale e sociale, le cose sono cambiate parecchio, almeno nei gruppi industriali di certe dimensioni. La statistica dice che gli incidenti in Italia sono calati negli ultimi sette anni del 34% e del 18% dal 2003 al 2007, qualche punto in più della media europea. Sta di fatto che da noi, oggi, esiste all’interno delle aziende un’organizzazione preposta alla vigilanza ed alla attuazione delle regole, corsi obbligatori, responsabilità diffuse, statistiche, dati, e, per quanto mi riguarda, anche un canale di comunicazione messo in piedi dall’azienda nei confronti dei lavoratori attraverso, fra l’altro, indicatori direttamente nelle fabbriche per informare su quanti e quali incidenti si sono verificati, le azioni intraprese, l’esito delle verifiche periodiche eseguite nell’area. Un modo cioè di veicolare il messaggio chiaro e forte che la sicurezza è centrale per l’organizzazione e che non è assolutamente solo un mero fatto burocratico. Cose a volte semplici ma assolutamente inesistenti solo dieci anni fa.

Ho letto in questi giorni critiche anche feroci alla sentenza Thyssen, critiche, a me sembra, più dal sapore della scusante che non di vere e fondate ragioni, e che, peraltro, sono assolutamente deleterie per la già fragile cultura sociale verso questi temi. Non si può dire che le pratiche per la sicurezza non vengono correttamente applicate per eccessiva burocrazia, per un approccio repressivo del sistema, perché non ci sono controlli, perché si devono sostenere costi eccessivi, perché le leggi e regolamenti sono inefficaci o sbagliati o, come dice il presidente degli industriali torinesi Carbonato, perché la sentenza “crea un clima intimidatorio” o perché “la stragrande maggioranza degli accadimenti infortunistici dipende dal fattore umano”. In tutta coscienza credo che fare sicurezza sia meramente un fatto di cultura e di serietà professionale, credo che la maggior parte delle situazioni di pericolo si possano sanare prestandovi l’attenzione necessaria e attuando le dovute azioni. I peggiori nemici sono la superficialità, l’incuria, la non cultura, la paura delle proprie responsabilità. Certo non esiste la sicurezza assoluta, esiste invece un rischio legato certamente al fattore umano, a impianti a volte un po’ datati e che quindi non assicurano lo stesso livello di rischio di quelli moderni, ma è anche vero che tale rischio residuo deve essere attentamente, seriamente, valutato, e che il prodigarsi perché sia minimizzato è un dovere primario, assoluto.

Se, come credo sia accaduto nel caso Thyssen, viene dimostrata la deliberata volontà, la piena coscienza di non garantire neppure i livelli minimi, ebbene allora bisogna anche subirne le conseguenze, che non possono essere che quelle viste. Credo che a fronte di una seria politica per la sicurezza, attuata con scrupolo e professionalità, nessuna azienda debba temere “ritorsioni” o “vendette”. La società intera ha tutto il diritto di “alzare l’asticella” sulla materia e non si tema che questo porterà le aziende ad abbandonare il paese. Stiano tranquilli imprenditori e manager, le società rimangono in Italia quando è conveniente farlo, quando le tasse sono adeguate e lo stato funziona, rimangono perché la produttività è alta, il sindacato aperto, le infrastrutture efficienti non certamente perché i morti sono a buon mercato. Di tutto il nostro paese ha bisogno ma proprio non di questo.

Commenti all'articolo

  • Di Geri Steve (---.---.---.203) 27 aprile 2011 11:29

    Concordo pienamente, tranne che su un punto: "non si tema che questo porterà le aziende ad abbandonare il paese".

    Questo rischio invece c’e’: tanto per cominciare, la Thissen Krupp non avrebbe avuto il coraggio di comportarsi cosi’ in Germania, e non e’ affatto escluso che poi "delocalizzi" dove puo’ risparmiare sulla sicurezza piu’ che in Italia e in Germania.

    Pero’ il ricatto della delocalizzazione va respinto: alla globalizzazione del capitale bisogna rispondere con la globalizzazione dei diritti, quali la liberta’ sindacale, la sicurezza sul lavoro, la sicurezza ambientale.

    Persone valide come Guarinello dovrebbero essere poste a dirigere organismi internazionali.

    Geri Steve

    • Di alfadixit (---.---.---.49) 27 aprile 2011 21:40
      alfadixit

      Per quello che riguarda la mia personale esperienza il fattore sicurezza è forse premiante piuttosto che non punitivo. La delocalizzazione avviene principalmente per altre ragioni, costi, efficienza ecc.. e su questo argomento, purtroppo, le regole non le possiamo decidere noi ma semmai dobbiamo "cavalvarle", che ci piaccia o no.
      Claudio
      PS grazie del commento.

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