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Storia della violenza: dalla tortura al rigore di bilancio

Uomini e donne portati alla forca, altri legati ai ceppi, cadaveri straziati dai corvi, villaggi in fiamme, bestiame razziato; questa la quotidianità dell'Europa medievale che ci restituiscono le pagine de Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l'epoca più pacifica della storia (2013, ed. or. 2011) dello psicologo evoluzionista canadese Steven Pinker (ma la cupezza con cui l'autore ha rappresentato l'Età di mezzo è stato oggetto di strali da parte dell'antropologo britannico Stephen Corry).

Nei secoli successivi, rivoluzione industriale, urbanizzazione e ampliamento dei flussi commerciali, aggiunge Pinker, avrebbero modificato quel paesaggio sanguinolento e reso il vecchio continente un posto assai più sicuro dove vivere.

Tesi di Pinker è che dalla preistoria umana ad oggi la violenza sia andata diminuendo in tutte le sue manifestazioni, dai contesti familiari ai rapporti tra Stati. I principali momenti di transizione di questo trend storico sono individuati dall'autore nel passaggio, circa 5000 anni fa, dalle società semianarchiche dedite alla caccia a quelle più strutturate agricole e stanziali; nel consolidamento, a partire dal tardo Medioevo, «di un mosaico di territori feudali in grandi regni, con un'autorità centralizzata e un'infrastruttura commerciale»; nel progressivo processo di monopolizzazione statale della forza; nella fioritura, nell'Età dei Lumi, di movimenti volti all'abolizione della schiavitù e della tortura giudiziaria; nel graduale superamento, dal secondo conflitto mondiale in poi, della guerra come strumento per la risoluzione dei contrasti internazionali tra gli Stati industrializzati, come anche delle violenze nei confronti delle minoranze etniche, delle donne, dei bambini, degli omosessuali. La fine del mondo bipolare, infine, avrebbe registrato un calo delle guerre civili, dei genocidi e delle azioni terroristiche.

Alla convinzione circa il declino plurisecolare delle pratiche di violenza e aggressione era già pervenuto, a dire il vero, alcuni anni fa Pino Arlacchi nel suo L'inganno e la paura. Il mito del caos globale (Milano, il Saggiatore, 2009).

Lo spettro della violenza cui fa riferimento Pinker, peraltro, è ampio, non risolvendosi solo in quella fisica ma anche in quella che si traduce in atteggiamenti, istituzionalizzati o meno, discriminatori; non così ampio, però, da comprendere quelle forme di violenza che, ad esempio, i critici del «capitalismo realizzato» ritengono non meno gravi e foriere di sofferenza di quelle tradizionalmente rilevate dalle serie statistiche nazionali.

Se i sistemi coloniali europei si dissolvono definitivamente nei decenni immediatamente seguenti la Seconda Guerra Mondiale, con il loro penoso carico di sofferenze umane, gli imperialismi “informali” che li avrebbero sostituiti con il loro corredo di scambi ineguali non sono infatti, obiettano i critici di cui sopra, forme di violenza altrettanto dolorose di quelle fisiche e discriminatorie?

E i censori del pensiero “neoliberista” non considerano forse il rigore di bilancio, quale riposta alla crisi economica, causa di disoccupazione, di insicurezza materiale e quindi di perdita di dignità umana? Non sarebbe, allora, anche questa ricetta di politica economica intimamente violenta?

Rimanendo all'interno del perimetro della sopraffazione disegnato da Pinker e Arlacchi, varie sono le spiegazioni che gli autori danno della circostanza per cui la flessione della violenza è accompagnata nell'opinione pubblica dalla percezione di un suo incremento.

Se, per Arlacchi, «il grande inganno viene prodotto dai media, dai governi, dagli apparati militari e della sicurezza, prevalentemente americani», Pinker richiama l'attenzione del lettore sulle responsabilità delle nostre facoltà cognitive;«la mente umana - infatti - tende a valutare la probabilità di un evento dalla facilità con cui può ricordarne degli esempi, ed è più facile che entrino nelle nostre case e s'imprimano a fuoco nella nostra mente scene di massacri piuttosto che di persone che muoiono di vecchiaia. Non importa quanto la percentuale di morti violente possa essere bassa: in termini assoluti ce ne saranno sempre abbastanza da riempire i telegiornali, con il risultato che le impressioni della gente sulla violenza non hanno alcun rapporto con le sue proporzioni reali».

If it bleeds, it leads, «se c'è sangue, fa notizia», insomma.

Ma è anche la «nostra psicologia morale» ad alimentare rappresentazioni distorte della realtà. «Nessuno - spiega Pinker - ha mai reclutato militanti in favore di una causa annunciando che la situazione sta migliorando, e i portatori di buone notizie sono spesso invitati a tenere la bocca chiusa per paura che possano indurre la gente a restarsene a casa soddisfatta».

 

Foto: gaelx/Flickr

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