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Siria, quali scenari dopo gli ultimi giorni?

Il raid compiuto da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti in risposta al presunto e finora non dimostrato attacco chimico delle forze del legittimo governo siriano a Douma si è risolto più in uno spettacolo a uso e consumo mediatico che in un evento di reale portata strategica (stante anche la limitatezza conclamata dell’azione), ma permette di comprendere alcune linee di tendenza del conflitto che sta dilaniando il Paese mediorientale.

di Andrea Muratore
In primo luogo, come scrivevamo, oramai è tempo di faccia a faccia tra le nazioni coinvolte nel teatro siriano: la linea dialogante interna all’amministrazione Trump ha prevalso sulle scelte degli interventisti duri e puri Pompeo e Bolton nel definire un’azione limitata tale da non infastidire le forze russe schierate in Siria e non rischiare un contatto diretto che avrebbe causato un’escalation devastante. Nonostante tutto, non vi è dubbio che, come ha scritto Fulvio Scaglione, l’attacco ad Assad avesse come obiettivo finale Vladimir Putin. Attorno alla Russia, scrive Scaglione “si tratta di creare […] un cordone sanitario di sanzioni, penalità e ostilità che in ogni modo le leghi le mani. Esigenza tanto più urgente in Siria, dove l’intervento russo del 2015 ha segnato, soprattutto per gli Usa e per i loro alleati del Golfo Persico, una sconfitta cocente. Per la prima volta, infatti, un piano di cambiamento di regime sponsorizzato dagli Usa è stato mandato a monte”.

Dato che la Russia e i suoi alleati stanno uscendo vincitori dalla contesa siriana, come del resto riconosciuto dal Generale statunitense Joseph Votel, l’obiettivo diventa impantanare nel groviglio mediorientale Mosca per impedirle di capitalizzare appieno i dividendi del suo successo strategico, a costo di alzare sino al livello di guardia la tensione.

Inoltre, ad aggiungere incertezza al contesto siriano c’è la recrudescenza dello scontro diretto tra Israele e Iran. Tel Aviv e Teheran si sono a lungo guardate in cagnesco: la prima è intervenuta in Siria esclusivamente per limitare le avanzate delle milizie sciite fedeli ad Assad, dei pasdaran iraniani e degli Hezbollah libanesi sostenendo, come riporta Piccolenote, “sette organizzazioni ribelli sunnite nel Golan siriano che stanno ricevendo armi e munizioni” per creare un cuscinetto di confine; l’Iran, dal canto suo, è stretto tra la volontà di consolidare la “mezzaluna sciita” creatasi dai suoi confini alla Siria e la necessità del governo di spingere il più possibile sulla politica estera per alleviare il calo di consensi notevole sul fronte interno, legato principalmente alle turbolenze economiche e monetarie. Gli elementi per combinare una reazione potenzialmente incendiaria sono abbondantemente disponibili, e a causare ulteriore scompiglio sarebbe un eventuale decisione di Trump di non certificare l’accordo sul nucleare siglato da Obama nel 2015 e rinnovare le sanzioni, fatto che galvanizzerebbe i falchi del Likud nel governo Netanyahu.

Altro attore da non sottovalutare è la Turchia: Erdogan sta portando avanti un pericoloso gioco delle tre carte, basato sull’attacco diretto ai curdi del Rojava e sulla combinazione tra una condanna del regime di Assad e un continuo contatto diplomatico coi suoi diretti protettori, che sono disposti a concedere al “Reis” una exit solution onorevole da una guerra in larga parte alimentata dai disegni neo-ottomani di Ankara in cambio di un indebolimento della NATO in Medio Oriente. La Turchia è, in ogni caso, il più imprevedibile degli Stati: Erdogan subordina ogni mossa al consenso interno nei suoi confronti, e la volontà di portare a casa un nuovo successo militare dopo la conquista di Afrin potrebbe causare danni irreparabili.

Grande è la confusione sotto il cielo siriano, ma la situazione è lungi dall’essere eccellente. La sconfitta dell’Isis ha finito per rappresentare l’inizio, e non la fine, del più acuto momento di crisi per il Paese mediorientale, lesionato da molteplici linee di faglia geopolitiche che si ampliano giorno dopo giorno e riemergono pericolosamente allo scoperto. Mentre appare sempre più chiaro che solo una mediazione politica articolata e credibile potrà garantire un futuro al Paese, e che le vittorie delle forze di Damasco sui jihadisti non sono sufficienti a consolidare l’unita della Siria, tale mediazione appare sempre più lontana e difficile, vista la contrapposizione frontale tra i principali Stati che possono giocare un ruolo nel fermare una mattanza entrata nel suo ottavo anno.

Andrea Muratore

Questo articolo è stato pubblicato qui

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