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Siria, non per cristiani. Né per musulmani

La storia dell’ormai estinta comunità cristiana di Dayr az Zor, nell’est siriano ora parte del cosiddetto Stato islamico, è di seguito raccontata da Leila Zaher che ha raccolto le voci di chi ha dovuto lasciare, forse per sempre, la città attraversata dall’Eufrate. “Quando hanno fatto saltare in aria la chiesa armena mi sono resa conto che in effetti il Paese non era più nostro. Ma neppure dei musulmani”.

Dayr az Zor, chiesa (The Syrian Observer)

(da The Syrian Observer. Traduzione dall’inglese di Camilla Pieretti).

 

Sistema davanti a me una serie di foto e mentre parla non smette di guardarle e sfiorarle con le dita, quasi a volerle riscoprire. Wafa è una sessantenne con il volto pieno di rughe e gli occhi pieni di lacrime. Mi prende le mani, trascinandomi con sé nei suoi ricordi mentre scorriamo le immagini, una dopo l’altra. Il mio sorriso la spinge a raccontarmi tutto nel dettaglio. È probabile che le fotografie siano state scattate tutte a Dayr az Zor, ma la presenza di Wafa è l’unica cosa che le accomuna.

“Quando sono state lasciate nella mia casa in via Cinema Fuad erano solo immagini senza importanza. Ora però le cose sono cambiate e bisogna averne la massima cura. Guarda! Si rovinano così facilmente”. Indica una vecchia foto sbiadita, la rimette nell’album, lo chiude e torna al suo racconto.

“Dopo che l’Esercito siriano libero ha preso il controllo di Jubeyla e Hamidiya, nella regione di Dayr az Zor, quasi due anni fa, sono scappata ad al Hassaka, ma non ho mai perso la speranza di poter tornare a casa. Tre dei miei figli sono emigrati in Svezia, ma io mi sono rifiutata, perché la mia tomba non può essere altro che a Dayr az Zor. Dopo la fuga, mio figlio continuava a ripetermi: “Siamo cristiani e questo Paese non fa più per noi”. Quando hanno fatto saltare in aria la chiesa armena mi sono resa conto che in effetti il Paese non era più nostro. Ma neppure dei musulmani.

Simon posa una mano su quella della sorella. Pare più giovane di lei, ma il suo dolore è altrettanto profondo. “Dayr az Zor era l’ultima tappa delle carovane di armeni sopravvissuti e costretti a fuggire”, dice Simon. “Quando i nostri antenati armeni, ormai sfiniti, sono arrivati qui le tribù locali li hanno accolti e protetti. Non abbiamo altra patria. E non abbiamo mai pensato che i musulmani ne fossero padroni più di noi”.

Dayr az Zor rimarrà senza chiese?

Dayr az Zor è una città la cui struttura sociale non ha mai consentito discriminazioni tra musulmani e cristiani. L’unica differenza era che i musulmani andavano a pregare nelle moschee, mentre i cristiani si recavano in chiesa. Il 2014, tuttavia, ha segnato una vera svolta nella storia della città. Le campane hanno smesso di suonare, perché la cristianità è stata completamente sradicata dalle zone libere della città. L’ultima e più importante voce cristiana presente nelle aree controllate dal regime è stata ridotta al silenzio nel momento in cui il suo possessore è stato arrestato dai servizi segreti governativi.

A metà del 2014 la più importante chiesa storica di Dayr az Zor è stata fatta saltare in aria. Prima della comparsa dei gruppi islamici più estremisti, tutti gli attivisti di Dayr az Zor erano concordi nell’affermare che le pratiche cristiane erano state colpite tanto quanto l’Islam. Ce lo spiega Khaled, membro della brigata al Muhajirun ila Allah (“Migranti verso Dio”). La sua voce che va e viene su Skype ricorda la prima volta che è entrato nella chiesa insieme ai compagni dell’Esercito siriano libero per aiutare a ripulire. Non riesce a nascondere la tristezza. “Quel giorno ho sentito che stavo svolgendo il mio dovere sociale e religioso nei confronti dei miei vicini cristiani. Gli attivisti si sono impegnati per proteggere i beni dei cristiani dalla gente, considerandoli e difendendoli come fossero loro. Si è trattato di un gesto di cortesia nei confronti di stranieri privi di qualsiasi sostegno o protezione tribale. In questo modo le chiese sono rimaste al sicuro, nessuno ha pensato di minacciarle. Sono stati gli stessi abitanti della città a proteggerle”.

Così ci ha spiegato Khaled, prima che la connessione saltasse e il suono della sua voce svanisse. Ma da quando la Jabhat al Nusra ha preso il controllo della città, voci come la sua, in quella fetta di popolazione, hanno cominciato a calare. Per la prima volta si è sentito dire che i cristiani sono infedeli e che i loro soldi e il loro sangue sono halal. Nulla di tutto ciò è stato dichiarato apertamente, ma secondo Saleh, uno degli attivisti di Dayr az Zor, è emerso in maniera evidente dagli atteggiamenti nei confronti dei beni dei cristiani. Saleh ha aggiunto anche che l’ingresso dell’Isis in città ha accelerato la trasformazione. La gente ha iniziato ad apostrofare apertamente i cristiani come infedeli e a dire che il paese doveva esserne ripulito. Nelle zone liberate, però, i miliziani dell’Isis non hanno trovato alcun cristiano da espellere o da bollare come infedele. Gli ultimi cristiani rimasti in città durante tutta la guerra erano fuggiti prima del loro arrivo. Così lo Stato islamico si è dovuto accontentare delle chiese che, per volere del destino, si trovavano nelle zone sotto il suo controllo.

Campane vendute come rottami – Questo è il regno dell’Isis

Il 21 settembre 2014 gli abitanti del quartiere di al Rashidiye sono stati svegliati da una forte esplosione. In tempo di guerra simili eventi non costituiscono niente di eccezionale, ma in questo caso era diverso. Chi abitava accanto alla chiesa l’aveva lasciata ancora integra la notte prima, e la mattina dopo non era rimasto altro che il campanile con la croce in cima. A causa del suo simbolismo religioso, questa chiesa era considerata luogo di pellegrinaggio della diaspora armena. Secondo Saleh, la prima pietra della chiesa è stata posta nel maggio 1985 alla presenza di sua Santità il catholicos Karekin I.

L’ingresso principale si trova su una facciata decorata da croci scolpite. A lato dell’altare, una delle pareti è decorata da iscrizioni in armeno e arabo, sormontate da due fontane in cui l’acqua, dopo l’esplosione, ha smesso di scorrere. Sul lato sinistro dell’altare c’è un memoriale con una croce di pietra e alcune miniature votive. Sulle pareti è raccontata la tragedia del popolo armeno. Di fronte all’entrata ci sono un massiccio monumento ai martiri e una croce di pietra, o khachkar, proveniente dall’Armenia e illuminata dalla fiamma dell’immortalità, perennemente accesa. Su entrambi i lati sono raffigurati cinque martiri armeni dal mondo. La chiesa era stata costruita sul lato sinistro della piazza, e sul fondo era stata posta una colonna che ne attraversa il centro. Alla base della colonna, chiamata "colonna di emissione", sono sepolti i resti dei martiri. La sala inoltre contiene – o meglio, conteneva – bacheche colme di libri, pubblicazioni e fotografie documentarie che mostrano la sofferenza del popolo armeno durante i massacri, oltre a una mappa su cui sono segnati i luoghi del genocidio e a un’indagine approfondita sui percorsi seguiti dagli armeni in esilio, perlopiù diretti a nord.

La distruzione della chiesa, continua Saleh, è stata terribile, ma la cosa peggiore è stato il disprezzo con cui la gente ha trattato cose piccole ma importanti: la chiesa è stata spogliata della sua sacralità e le campane sono state considerate semplici pezzi di metallo, da rivendere per strada come rottami.

Jack Abdallah

Su una grossa fune alta tra due muri oscilla Handala, il bambino palestinese disegnato da Naji al Ali, con tutto il suo simbolismo rivoluzionario. Si rifiuta di guardarti, ti ignora e insiste con l’ignorarti. Guardi Jack Abdallah mentre lui prova a convincerlo a scendere di lì per sostituire la sua immagine con un’altra o riordinare i giornali e le riviste che ha disposto sul marciapiede fuori dalla sua libreria, “al-Kawakibi”, da quando è stata chiusa dai servizi segreti siriani. Tutto ciò sotto lo sguardo di un informatore, il proprietario del negozio di scarpe “Basta”, che comunica ai servizi segreti tutto ciò che vede o sente nella via.

Jack Abdallah era noto per essere un attivista contrario al regime, prima e durante la rivoluzione siriana, e per questo aveva attirato a sé molti giovani. Quando la rivoluzione si è militarizzata, è stato costretto ad abbandonare la sua casa di piazza Hammud, come altre migliaia di abitanti di Dayr az Zor, ma si è rifiutato di lasciare la città. Si è trasferito nel quartiere di al Jura, noto per l’elevata densità di popolazione e ha continuato a fornire i suoi servizi alla città e ai suoi abitanti fino a quando è stato arrestato dai servizi segreti.

Nella zona controllata dal regime non c’erano chiese da fingere di proteggere, perché i cristiani non hanno mai vissuto in quelle zone. Ora però Jack Abdallah si trova lì, e dal giorno dell’arresto è sparito dietro le sbarre, ultima voce cristiana a Dayr az Zor. Nel frattempo, nei quartieri liberati, l’Isis si sta impegnando per eliminare qualsiasi colore diverso dal nero del suo vessillo, che tanto venera.

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