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Siria. Assenze di Yarmuk. Una nakba lunga tre anni

Infanzia senz’acqua.
“Non preoccuparti mamma, siamo tutti tuoi figli. E siamo pronti a lavorare e ad aiutarti”
“Cuore di mamma…”
(dal pancione): “Sì sì mamma, anche io sono pronto!”

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Se io che scrivo e tu che leggi fossimo qualcuno che è rimasto a Yarmuk, ora ci staglieremmo sullo sfondo desolato di ciò che manca. Convivremmo, ogni giorno, con quel che è stato tolto a noi e al nostro campo. Esisteremmo come in un negativo. Solo nell’avvicinarci a ciò che ci manca, la nostra immagine risalterebbe.

Sono tante le assenze che popolano Yarmuk, il campo palestinese a Damasco, in Siria. La libertà se ne è andata quando è iniziato l’assedio parziale che continua da tre anni. Dicembre 2012.

Qusay Zakaria, citizen journalist siro-palestinese che ha vissuto in un’altra zona sotto assedio, Muaddamiya, ha descritto per Foreign Policy quello che lui stesso ha visto a Yarmuk tra il 15 e il 16 dicembre 2012:

È stata la prima volta che il campo di Yarmuk veniva attaccato da un aereo da caccia. L’obiettivo del regime: la moschea Abd al Qader, un luogo di culto stracolmo di sfollati. Dalla mia finestra vedevo scene di panico e caos, schegge e parti del corpo sparse ovunque. In seguito dei carri armati sono avanzati per circondare il campo. Quando è giunto l’annuncio che ci ordinava di andarcene nel giro di tre ore o di non farlo affatto, ce ne siamo andati. Uscendo, siamo passati accanto a decine di carri armati e migliaia di soldati pronti a marciare. L’assedio di Yarmuk aveva avuto inizio.

Sono palestinesi del campo stesso che identificano in ciò che è avvenuto in quei giorni l’inizio di una seconda Nakba. A 64 anni dalla prima che costrinse i loro nonni e genitori a lasciare la Palestina, con la creazione dello Stato di Israele.

L’assedio ha diviso nuclei, portato via amici, umiliato, terrorizzato, preso di mira, logorato le famiglie di chi il campo lo aveva costruito con le proprie mani quasi 60 anni prima. È diventato totale oltre due anni fa. Luglio 2013.

Da anni ogni tipo di morte (bombardamenti, scontri, cecchini, fame, assassinii, tortura, o d’altra natura) viene documentata, tra gli altri, dalla Lega palestinese per i diritti umani in Siria e dal Gruppo di azione per i palestinesi in Siria.

Almeno 184 persone sono morte finora per via dell’assedio. Il 6 settembre scorso Fatima al Hasan, bimba di appena 6 mesi, è morta a causa della mancanza di medicinali. Cinque giorni dopo, l’11 settembre, l’anziano Talib Ali Abu Khalifa è morto per via della malnutrizione e della mancanza di assistenza medica. Il 27 ottobre un bambino di 11 anni, Salah ad Din as Sufani, ha perso la vita, anche lui a causa della mancanza di assistenza medica. La vittima più recente è un bambino di 10 anni, Nidal Murad, il cui cuore si è fermato per una meningite. Anche nel suo caso per non aver potuto ricevere le cure adeguate.

Dalle Ong e dai gruppi di lavoro che le documentano, queste vengono definite tutte dahaya al hisar, “vittime dell’assedio”. Ossia decedute per cause legate all’imposizione dell’assedio da parte del regime siriano e delle milizie lealiste.

Degli ospedali presenti nel campo sarebbero attivi solo due centri che conducono ancora alcune attività. Secondo fonti locali, non ci sono medici tranne il giovane dottor Muawiya e un altro dottore. Mi hanno raccontato che il dottor Muawiya è stato tra coloro che si sono rifiutati di lasciare il campo per continuare a prestare servizio alla sua gente.

Laureato in chirurgia, ha deciso di restare proprio perché sa che nessun medico coprirebbe la sua assenza. Il resto del personale invece sarebbe composto da infermieri o paramedici. “Personale medico specializzato, farmaci, vaccini, fonti di elettricità: è soprattutto questo che ci manca”, spiega il dottor Muawiya ad Al Jazeera, parlando di epidemie come la febbre maltese e tifoide, e dell’ittero. Preciso qui che i batteri si diffondono e prolificano viste le condizioni igienico-sanitarie legate soprattutto all’acqua non sicura da bere.

Ci sono assenze dovute agli assassini politici avvenuti nel campo. Ad essere stati presi di mira spesso attivisti e figure di spicco che per il campo si adoperavano.

Yahya al Hurani, conosciuto come Abu Suhaib, “l’ultimo angelo di Yarmuk” nel ritratto splendido che ne fa Lorenzo Trombetta. Assassinato il 30 marzo 2015, un giorno prima che lo Stato islamico entrasse nel campo, ha lasciato un solco profondo. Come segno indelebile di ciò che ha dato al campo. E come vuoto della sua assenza. I giovani e gli adulti che da lui hanno imparato cercano di colmarlo ogni giorno. Dentro, fuori. Ovunque si trovino oggi.

Baha’a Saqir, detto Abu Hamza, membro della Lega dei figli di Yarmuk, gruppo cittadino locale che si occupa delle questioni del campo. Un giorno, richiedendo gli aiuti umanitari per la sua gente, disse a chi da fuori glieli negava: “Siamo pronti a morire di fame, ma giuro che moriremo con dignità. Nel campo di Yarmuk si morirà con dignità”. Era il 2 agosto 2014 quando è stato assassinato. I suoi quattro figli, due bimbi e due bimbe, sono ancora nel campo. Con la loro madre.

Firas Naji, fratello di un mio buon amico, coordinatore generale della fondazione Basma. Nel bel ricordo che ne ha fatto allora Salim Salamah, citava il progetto della fondazione per fornire acqua al campo e il progetto delle coltivazioni urbane che ha sfamato gli abitanti fornendo loro verdure. Due dei tanti progetti portati avanti dalle numerose realtà locali contro la morsa dell’assedio. Il giorno che è stato assassinato, il 23 febbraio 2015, tutto è diventato nero. Io che non lo conoscevo, quel giorno Firas l’ho disegnato. E mi sono sentita in colpa per via dei miei colori. Capendo, di lì a poco, che invece è proprio quando il nero arriva alla gola che si prova a colorarlo. Per difendersi. Per affermare quello che la morte ha provato ad arrestare.

La lista è più lunga. Sono tra le perdite che lasciano gli abitanti più sgomenti e impoveriti. Di una grande risorsa umana che viene tagliata proprio come i servizi di base. Ma in questo caso da qualcuno all’interno. Che resta quasi sempre majhul, “una mano ignota”, almeno in termini ufficiali.

L’elettricità manca da oltre due anni. Per procurarsela, la gente è costretta a tenere in casa o fuori dei generatori (muwallidat) che alimenta con dei combustibili (mahruqat) il cui prezzo è alto durante tutto l’anno. Diventa una spesa ancora maggiore nei mesi invernali. Comunque di questi combustibili non se ne trovano molti. La gente produce invece una sorta di diesel per uso domestico (mazut) squagliando del materiale plastico. Alcuni lo vendono a chi non ne produce.

I generatori fanno un rumore infernale. Oltre a tutto ciò che ne consegue in termini di inalazioni e incidenti. Nel racconto di Orient, “nessun suono sovrasta quello di questi generatori, tranne un colpo di mortaio o un barile (esplosivo) sganciato dal regime”.

“Non sappiamo come lavarci, i bambini si svegliano e piangono. Non c’è elettricità. Cos’altro ci toccherà?! Non volete proprio risolverlo, il problema?”, chiede una signora intervistata dal canale. Poi un uomo spiega che “non riuscendo a trovare del diesel siamo costretti a produrlo e a fare da soli, visto che hanno tagliato l’elettricità in tutta l’area. Siamo noi ora a fornire luce alla gente che c’è e a quella che sta tornando nel campo”.

Un altro uomo aggiunge: “La gente a Yarmuk ha bisogno dell’elettricità. Gli abitanti hanno trovato il modo di procurarsela singolarmente con i generatori ma è molto costosa e basta solo per un tempo limitato durante la giornata. L’elettricità è una questione complessa, ogni cosa vi è collegata”.

L’acqua è una delle assenze più difficili da sopportare. Manca da oltre un anno e costringe gli abitanti a riempire ogni giorno taniche e taniche dai serbatoi nei punti di distribuzione per la strada. Sono tantissimi i bambini che svolgono questa mansione. Alcuni sono così piccoli.

Ho faticato parecchio per raccogliere del materiale attendibile sulle scuole, incrociando le informazioni. Non ci sono stime ufficiali e non ho modo di verificare i dati, ma mi hanno parlato di circa 1.500 studenti di Yarmuk che sarebbero al momento registrati nelle poche scuole ancora aperte. La più grande si trova nel campo, la scuolaal Jarmaq, la frequentano circa un migliaio di studenti. Un’altra si trova nel quartiere ‘Uruba a sud del campo in una zona che va da via ‘Uruba a Yalda (quest’ultima è una zona assediata adiacente a Yarmuk), si chiama scuola al Amal e a frequentarla sono cento bambini. E poi c’è la scuola ad Dimashqiyya, precedentemente nel campo, ma le cui attività si svolgono ora a Yalda, frequentata da 350 bambini. Nel campo c’è anche una scuola superiore, sarebbero circa 50 gli studenti che la frequentano.

In alcuni casi queste scuole sono state chiamate madaris badila, “scuole alternative”, essendo nate dagli sforzi degli abitanti quando l’attività scolastica ha subìto dei duri colpi, visto l’assedio e la mancanza di sicurezza. Nel campo c’è anche rawdat al amal, l’asilo della Speranza, a frequentarlo sarebbero circa 150 bimbi ed è un meraviglioso esempio di come organizzazioni sul terreno, volontari e attivisti si diano da fare per la propria gente, a iniziare dagli abitanti più piccoli.

La scena che ho disegnato in copertina (Infanzia senz’acqua) mostra come siano i bambini spesso a farsi carico di aiutare a rendere l’assedio meno duro per le famiglie. Se gliene rimane una. Ho immaginato una madre trovare rassicurazione nelle parole di un bambino che non necessariamente è suo figlio ma che si offre di aiutarla, come tutti gli altri. Coi bidoni accanto al bambino che aspettano di essere riempiti d’acqua, o forse ci ha già pensato. Perfino il bimbo nel pancione che ho colorato coi colori della bandiera della Palestina perché nella forma mi ricordava i contorni della mappa di Yarmuk, dice che la aiuterà. In fin dei conti in grembo ha già accanto a sé un secchio per riempire l’acqua…

“Anno dopo anno, gli abitanti lanciano le loro grida chiedendo soluzioni che ne allevino la miseria”, dice la giovane giornalista siro-palestinese originaria di Yarmuk, Alaa Sahli, nel suo servizio per al Quds. La giornalista suggerisce che per gli abitanti sarebbe già un passo importante se “l’acqua dei pozzi contaminati venisse sterilizzata”. A parlare è anche il dottor Muawiya che denuncia un incremento di calcio nelle acque del campo, rilevato da alcuni test svolti su campioni. Oltre alla presenza di parassiti. Mette poi in luce un secondo aspetto legato ai disturbi che riguardano le ossa e i muscoli, per via della distanza che percorre chi riempie i bidoni d’acqua e allo sforzo per trasportarli.

Punto che trova eco nell’appello di un’altra degli abitanti intervistati: “Trovate una soluzione perché l’acqua arrivi nelle case. Dateci tregua da questa umiliazione. Ci hanno colpito cento malanni. Ci fa male la schiena, i piedi, siamo stanchi e sta arrivando anche l’inverno. Vogliamo una soluzione al problema”.

Può il cielo trasformarsi in una assenza? Perché non è più cielo. Il cielo se ne va e al suo posto arriva una minaccia continua di sangue e morte. Quando penso a Yarmuk e a tutte quelle zone in Siria bombardate, mi viene da credere così. Eppure il cielo resta una porta spalancata che chiude fuori l’assedio. I piccioni allevati sui tetti (hamama). Le rondini (sununu). L’alba dal campo. Il tramonto dal campo. La luna. La pioggia, la neve. E anche l’arcobaleno. Poi il mostro si affaccia nel cielo. I barili-bomba sganciati dagli elicotteri del regime sui quartieri del campo dilaniano ciò che ne rimane in piedi.

In aprile un missile ha colpito l’ospedale Palestina. In quei giorni neppure il cimitero dei martiri è stato risparmiato dai barili esplosivi. Poco più di due mesi fa, il 4 ottobre, altri due barili-bomba hanno colpito di notte una scuola dell’Unrwa. Sono solo tre esempi di attacchi che si susseguono e terrorizzano. E poi i colpi di mortaio, gli spari dei cecchini. Come se l’aria stessa non fosse più aria. Ma una traiettoria per colpirti qualunque sia l’arma usata.

E se resti vivo? Oltre a subire le imposizioni di chi controlla le zone assediate dall’interno (Jabhat al Nusra, Isis, ecc.), forse ti arrestano a un checkpoint del regime.

Succede a uomini, donne e bambini vittime di detenzioni arbitrarie. Sono assenze che dilaniano chi è rimasto. “Che Dio ponga fine alla tua prigionia, fratello, sorella, zio, amica”, è tutto ciò che dal campo riescono a dire. Ogni volta che li ricordano. Ogni volta che poi si ripete. “Non dimenticateli”, scrivono con più insistenza. Quando i nomi restano zitti nei cuori.

Come ha ricordato la scrittrice e attivista palestinese Budur Hassan, “Dal 2011 almeno 427 palestinesi sono morti dopo aver subìto torture nelle carceri siriane, secondo il Gruppo di azione per i palestinesi in Siria. Quasi sicuramente queste cifre sono al ribasso”.

Basta la parola i‘tiqal (arresto, in arabo) a gettare in un incubo. Cosa gli faranno? Riuscirà a uscire? Quando lo rivedremo? Tutto condensato in quel “Non dimenticateli”.

Oppure, se sei ancora vivo e non ti hanno arrestato, magari sei stato costretto a scappare nelle zone circostanti.

Accade a uomini, donne e bambini sfollati dal campo anche solo a pochi chilometri. Sufficienti a farli sentire destabilizzati e privati della loro casa, o di ciò che ne restava. Quando Isis è entrato nel campo il 1° aprile scorso, una grossa parte degli abitanti si è spostata a Yalda, Bayt Sahm, Babbila. Tutte zone adiacenti al campo e anche esse sotto assedio. Le loro condizioni di vita non sono molto più facili.

A restare a Yarmuk, oggi, secondo stime del Gruppo d’azione per i palestinesi in Siria sarebbero tra i 3 e i 5 mila civili. Un altro modo per capire quanta gente rimane è contare quante tessere per gli aiuti sono state distribuite. In questo senso, si parla di un numero vicino alle 4 mila famiglie, ma da quanto mi hanno spiegato, questa cifra comprenderebbe anche le persone di Yarmuk sfollate nelle zone adiacenti al campo.

Da due anni scrivo delle assenze con cui convivono. Da un anno ne disegno. Ogni giorno ho paura, e ogni giorno sto male. Punto ancora il negativo di Yarmuk verso la luce del sole.

Ti vedo. Esisti. Sto continuando a raccontarti.

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