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Silent House, Elizabeth Olsen e il pianosequenza

Siamo in un periodo in cui i remake la fanno da padroni e non è un caso imbattersi anche in pellicole come Silent House che riprendono film di solo un paio di anni prima (La casa muda nello specifico).

Qui è però evidente che l’interesse di Chris KentisLaura Lau sia soprattutto per la struttura del film, visto che ripropongono il pianosequenza che già caratterizzava il primo film… ci arriviamo subito.

La vicenda è semplice: Sarah arriva col padre in una vecchia casa sul lago che hanno deciso di vendere per sistemare le ultime cose. Una volta dentro, isolati dal mondo, la ragazza sente però strani rumori, passi… si accorge che in casa c’è qualcun’altro.
E non è un personaggio con intenzioni pacifiche.

Si comincia con un’inquadratura dall’alto (molto dall’alto) di Elizabeth Olsen seduta su una roccia. Poi la macchina da presa scende, si avvicina alla ragazza e comincia a seguirla.
Non smetterà più di farlo fino alla fine del film.

Kentis e Lau dovevano puntare tutto su questo pianosequenza e lo fanno con grande attenzione.
Le luci, la scelta del momento in cui fermare la macchina da presa per fissare alcune inquadrature, i diversi piani, il fuoco che cambia.

Addirittura l’utilizzo di immagini riflesse o inquadrature attraverso spiragli e piccoli anfratti.


Tutto è studiato nei minimi dettagli per avere un risultato degno di nota e di qualità.

A tutto questo ovviamente bisogna aggiungere la perfezione dei tempi con cui gli attori devono muoversi sulla scena per trovarsi sempre al momento giusto al posto giusto, una roba che va oltre il compito tradizionale dell’attore cinematografico ed anche oltre quello dell’attore teatrale.

E da questa prova la giovane Olsen (scusate, non ho resistito) ne esce alla grande, con un’interpretazione che conferma quanto di buono visto nelle sue prime pellicole.

Quindi il pianosequenza è qui migliore rispetto a quello di Hernandez ne La casa muda?
Sinceramente ritengo di sì.
Lì c’erano troppi momenti di stasi, pause, movimenti di macchina meno attenti, qui il risultato è completo.

Rimane ovviamente il dubbio che si tratti di pianosequenza tecnicamente corretto, se davvero non ci siano stacchi di montaggio occultati magari dall’uso del pc.

Di certo non ce ne sono di classici, diciamo quelli su nero… quantomeno fino al finale dove il buio è però assolutamente funzionale alla storia.

E a proposito di storia, anche quella funziona bene (ripresa integralmente dall’originale), c’è tensione, sorprese, spaventi improvvisi.

Si cambia qualcosina solo sul finale, soprattutto dal punto di vista visivo, delle immagini (non della vicenda narrata) e sono anche qui soluzioni ottime che contribuiscono a rendere Silent House un film da vedere assolutamente.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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