50 anni de L’esorcista. Cosa rimane di un film cult e dell’epica lotta tra fede e razionalità
Il film L’esorcista, con il suo impatto culturale, ha definito lo standard della possessione demoniaca per l’immensa filmografia derivativa e forse anche nelle “reali” pratiche della Chiesa. Paolo Ferrarini, membro della giuria del premio Brian, analizza questo cult movie sul numero 1/2024 di Nessun Dogma.
Sorrido, tra il sarcastico e l’amareggiato, ogni volta che ai giorni nostri un film viene anticipato come scandaloso, rivoluzionario, controverso. A chi usa simili termini vorrei tanto chiedere cosa ci possa essere nel 2023 di più scandaloso, rivoluzionario e controverso di una bambina di 12 anni che nel lontano 1973 si sverginava violentemente con un crocifisso al grido assatanato di «Fatti chiavare da Gesù».
E subito mi prende lo sconforto pensando a quanti passi indietro si siano fatti in termini di libertà di espressione, a quanto il senso di tabù e l’autocensura abbiano nei decenni sopraffatto il mondo delle arti diventando lo standard del politicamente corretto, annacquando e addomesticando tutto ciò che arriva sugli schermi del pubblico generale.
L’esorcista ha compiuto 50 anni esatti il 26 dicembre scorso, anniversario della sua uscita nei cinema americani. Non è un film come gli altri. Al di là dell’effetto disturbante che all’epoca certe scene inedite e sensazionali potevano avere sugli spettatori, al punto da far svenire più di qualcuno in sala, il suo impatto culturale si è rivelato eccezionalmente forte e duraturo, per un semplice film dell’orrore.
Si può dire che abbia definito lo standard della possessione demoniaca, redigendo nell’immaginario collettivo, in tutta l’immensa filmografia derivativa, e chissà, forse anche nelle “reali” pratiche della Chiesa, il manuale di istruzioni su come si devono comportare i demoni, le vittime, gli esorcisti, e in tutto questo come mettere la scienza in scacco a vantaggio del pensiero magico e fideistico.
Già, perché lo scatenarsi del male, nel film, sembra avere qualcosa a che fare con l’ateismo della sboccata madre di Regan e con la crisi di fede di padre Karras, il sacerdote inizialmente chiamato a occuparsi della vicenda, mentre il ruolo di medici e psichiatri è quello di infliggere inutili torture, mettendosi in imbarazzo nel tentativo di produrre diagnosi in un ambito che evidentemente non compete loro.
Il tema più ampio, tuttora ricorrente in una vastissima parte della produzione hollywoodiana, è quella fastidiosa caricatura dello scetticismo in cui il miscredente viene caratterizzato come qualcuno che nega l’evidenza di ciò che sta accadendo davanti ai propri occhi, beffeggiato da coloro che, “di mente aperta”, credono senza esitazione e grazie alla loro fede salvano la situazione.
Ma insomma, quando i mobili cominciano ad andare in giro da soli per casa e tua figlia levita sproloquiando in sette lingue, quale razionalista sarebbe così stupido da arroccarsi irragionevolmente in un dogmatico diniego? Anzi, se queste cose si verificassero sul serio, non ricadrebbero più sotto il dominio della fede, ma sotto il dominio della realtà, quella cosa che, per dirla con Philip K. Dick, esiste a prescindere dal tuo credere o meno in essa.
Qualunque razionalista, in virtù stessa del proprio metodo di ragionamento, sarebbe pronto a ridefinire le regole del gioco. Il fatto è che questi fenomeni semplicemente non accadono. Non importa quanto immanente e auto-evidente sia la presenza del divino secondo certe versioni americane del cristianesimo, quel tipo di prove non esistono altro che nella mente di chi ci crede. E appunto, nei film, che possono fungere da rappresentazione e proiezione di questo tipo di mentalità, sfumando il confine tra realtà e immaginazione, tra realtà e desiderio di credere in determinate cose.
Parte del successo de L’esorcista sta quindi anche nell’ambiguità metafisica mutuata dal tema religioso. I fantasmi possono far paura, zombi e vampiri possono popolare gli incubi di qualcuno, ma in fin dei conti, nessuna autorità ti incoraggia a considerare queste entità come altro che prodotti della fantasia. Non così per il demonio, nella cui esistenza, in una forma o nell’altra, la cultura religiosa dominante cerca di inculcare la credenza.
Ecco perché, a conti fatti, anziché reagire istericamente come fece all’epoca, la Chiesa avrebbe dovuto ringraziare la produzione per aver contribuito così efficacemente a instillare nella mente del pubblico, perpetuandoli, alcuni dei temi che le stanno particolarmente a cuore. Tra l’altro, il film si conclude molto simbolicamente con Regan, la ragazzina liberata dal maligno, che bacia, in un atto di subliminale riconoscenza, il collare romano di un sacerdote.
In quanti altri film i preti sono i super eroi nell’epica lotta tra il bene e il male? Lo stesso William Peter Blatty, che insieme all’attrice Linda Blair ebbi modo di incontrare a Londra per il 25esimo anniversario del film, esplicitò in quell’occasione l’intento apologetico che lo aveva mosso a scrivere il romanzo. Nella sua mente, non si trattava di una storia dell’orrore, ma di un giallo soprannaturale a ispirazione cattolica volto a mettere in evidenza il potere redentore della fede. Inizialmente, si dichiarava addirittura stupito che le persone lo trovassero spaventoso.
Nel 2017, pure il regista William Friedkin ha contribuito a mettere in qualche modo in prospettiva il suo capolavoro, con la realizzazione di un imbarazzante pseudo-documentario sugli esorcismi, girato in Italia, che vede come protagonista niente meno che padre Amorth.
Il taglio acritico dato a una ridicola vicenda amatorialmente rappresentata fa pensare che, a dispetto del suo dichiarato agnosticismo, la possessione demoniaca fosse qualcosa che Friedkin voleva davvero far ingoiare al pubblico. La sorte ha voluto che alla proiezione del film, visionato dalla giuria Brian alla mostra del cinema di Venezia, il regista mi fosse seduto accanto. Nonostante fin da piccolo fossi stato un appassionato cultore de L’esorcista, al termine de Il diavolo e padre Amorth il disagio era tale che non riuscii a costringermi a dargli la mano.
Friedkin muore lo scorso agosto, pochi mesi prima del 50esimo, realizzando tra l’altro il suo profetico desiderio di non esserci per l’uscita halloweeniana del sequel L’esorcista – Il credente diretto da David Gordon Green, regista de Gli strafumati. Scomodando le invecchiate attrici Linda Blair ed Ellen Burstyn nei loro ruoli originali per fare in qualche modo da trait d’union e legittimare l’operazione, il film omaggia in sequenza un po’ tutti i cliché dell’originale, dai cani rabbiosi che si azzannano, al prologo misterioso e sinistro in una terra straniera, la semi-giocosa evocazione degli spiriti che apre le porte dell’inferno, le inutili visite all’ospedale, e via dicendo.
C’è persino un riferimento, pavido (dopo 50 anni direi pure smidollato), alla masturbazione della bambina posseduta. Senza crocifisso, ci mancherebbe. Ciò che è completamente assente, tuttavia, è il terrore, la suggestione, la tensione.
Essendo tutte queste scene ormai messe puramente al servizio della citazione, risultano svuotate del loro significato profondo, un po’ come nel caso del buffo remake turco in salsa islamica del ‘74, Şeytan, dove l’imam esorcista, non avendo ovviamente a disposizione stole cattoliche per praticare il rituale, scimmiotta l’azione originale del prete facendo vomitare la bambina posseduta su una sciarpa qualsiasi che aveva al collo.
Stessa scena, ma senza alcun senso. La differenza è che almeno Şeytan risultava involontariamente comico, nella sua ingenuità, mentre Il credente non appare altro che una patetica operazione di riciclaggio a fini commerciali.
Poche cose nella vita sono belle e soddisfacenti come esplorare e godersi le proprie emozioni, aspetto essenziale di ciò che ci rende umani e funzione primaria delle arti.
Forse allora, de L’esorcista originale, ciò che davvero rimane per chi come il sottoscritto ne ha un tempo subito il fascino, è il senso di nostalgia per un’epoca, o un periodo della vita, in cui sensazioni come l’inquietudine e la paura potevano emergere più efficacemente prima di aver maturato un rapporto filosoficamente sano con la realtà, prima di avere sufficiente consapevolezza e spirito critico per capire ad esempio che non c’è verso che una testa possa fisicamente ruotare su stessa di 360 gradi come quella di una bambola, e soprattutto che nessuna supposta entità può prendere il posto di una coscienza, per il semplice fatto che il corpo umano non è un contenitore fisico che possa imbottigliare spiriti disincarnati.
In un certo senso, quando nella vita è la razionalità a vincere l’epica lotta contro la fede, un piccolo prezzo da pagare è la perduta capacità di sospendere il giudizio di fronte a rappresentazioni artistiche che a ragion veduta non hanno palesemente più nulla di credibile.
Paolo Ferrarini
Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Lasciare un commento
Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina
Se non sei registrato puoi farlo qui
Sostieni la Fondazione AgoraVox