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Sicilian Ghost Story: la tragica vicenda di Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito

L’attore Giuseppe Tantillo nella presentazione del film su mymovies dice che i registi Piazza e Grassadonia continuano a trasfigurare la tragedia senza fine della mafia in una fiaba aperta al fantastico.

Il loro precedente film Salvo fu con temi e stile noir, sembrava di stare a diretto contatto con ambienti mafiosi; Sicilian Ghost Story invece sembra una fiaba oscura, finita male, interpretata da due attori giovanissimi e forse documento per i giovani siciliani (e non) d’oggi. C’è da augurarsi però che i ragazzi che han visto il film sappiano che davvero un tredicenne nel 1993 fu rapito e fatto morire dopo 17 mesi di prigionia, prima soffocato e poi disciolto nell’acido: era Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, ex mafioso passato ad essere un collaborante della magistratura e a denunciare gli autori e mandanti della strage di Capaci. Per vendetta e ricatto contro l’”infame” gli ex sodali di cosca rapirono il figlio, tra essi Giovanni Brusca, ex amico della famiglia Di Matteo, con cui Giuseppe aveva giocato da piccolo.


 
I due ragazzi protagonisti sono Luna (Julia Jedlikowska) e Giuseppe (Gaetano Fernandez), scelti nel quartiere Zisa di Palermo dopo 9 mesi di casting. Appaiono subito come due “numeri primi”, si distaccano dal resto della classe, sono due compagni di scuola innamorati. A Giuseppe suo papà mancava, lo aspettava e si consegnò facilmente a dei finti poliziotti, i rapitori, che gli promisero di andarlo a trovare. Viveva con la madre muta e dopo il rapimento del figlio ancora più piangente di disperazione, e con un nonno mafioso irremovibile. Il pentito Santino una volta evase dall’Asinara, per cercare la prigione del figlio in Sicilia. Nel tragitto casa-scuola i due ragazzi incontrano più volte un cane nero e feroce, sembra la bestia che prelude all’ambiente di cui presto Giuseppe farà la conoscenza. Emoziona, sapendo già che si tratta di un addio, che Luna al maneggio non voglia salire sul cavallo di Giuseppe, che praticava l’ippica, magari la prossima volta dice, per cercarlo poi nello spogliatoio e nelle stalle e aspettarlo per sempre.
 
Una delle definizioni date al film ne parla come di una misteriosa favola siciliana: sorprende o provoca qualche riserva che i due registi e sceneggiatori abbiano voluto descrivere il fatto come storia siciliana di fantasmi, in chiave favolistica o, peggio, come loro esercizio di stile, con l’osservazione indugiante del bosco nei Nebrodi, il mistero sotto un laghetto da cui si accedeva alla prigione di Giuseppe. Spettatori ragazzini potrebbero farsi prendere dalla favola, quanto scuoterebbe l’essere di persone che nel ’93 non erano ancora nate? Quanto è comprensibile a dei ragazzi che il lungo discendere finale nel lago di lembi biancastri sia il corpo disfatto di Giuseppe oppure solo una dimostrazione di stile nella ripresa? Un film che vale molto la pena di vedere comunque, anche se le due ore possono risultare snervanti. C’è perfino, da parte di Vincenzo Amato che impersona il papà di Luna, un rutto sonoro in riva al lago, e qui lo stile non c’entra; anche la strana presenza di un handicappato tra i carcerieri è inspiegabile, o forse realtà?

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