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Sessantotto e jeans: mito e significato

Il mito non è idea e neppure utopia. Idea, già dai tempi antichi, può avere una esistenza a prescindere dalla realtà; per Platone, ad esempio, anche prima della realtà stessa, tanto che vera realtà è - per lui - l’idea. Così l’u-tòpos, ciò che non è in nessun luogo, ovvero che non ha un riscontro nella realtà concreta. Il mito invece origina sempre dalla realtà e ad essa rimanda, in maniera più o meno diretta tramite, in tutto o parzialmente, il significato.

È allora improprio parlare del sessantotto in termini di idea o, perciò, di ideologia, così come pure in termini di utopia. Parlarne in termini di mito invece rinvia ad un che di reale, di concreto. E al concreto – ad re – volge anche il significato del sessantotto. Può aiutarci a capire l’esigenza e le rivendicazioni di fondo del sessantotto anche un capo di abbigliamento fatto proprio dai sessantottini, come per altro da tante e differenti persone, appartenenti alle più diverse categorie sociali ed inclinazioni politiche, ma tutte accomunate dal senso della praticità. 

È un capo di abbigliamento che nasce nel 1872, quasi cent’anni prima del sessantotto, ad opera del giovane industriale tessile tedesco-americano Karl Levi Strauss: il jeans, il Levi’S. Il criterio direttivo del giovane industriale fu esattamente inverso, opposto a quello della maggior parte degli stilisti di moda di oggi, i quali partono appunto da un modello ideale di capo di abbigliamento e da un altrettanto ideale presupposto modello di persona, uomo o donna che sia. La donna oggi è quella filiforme asessuata anoressica all’ultimo stadio che un tempo era definita con il termine di "racchia", a sottolinearne l’insano rachitismo. La donna – o l’uomo – reali (e non malati) che tenti poi di indossare un tale capo di abbigliamento si trova inevitabilmente a confrontarsi con l’insuperabile limite antropologico che a quell’ideale si oppone.

Karl Levi Strauss invece, come molti altri suoi contemporanei, si pensi ad esempio a Tocqueville, a Colt, etc., andò sul campo: tra i frontiers. La gente di frontiera, termine con il quale erano designate specie diversissime di persone: gli operai delle costruende ferrovie, i cercatori d’oro, i cow boys, i cacciatori, etc.. Ci stette per diverso tempo, con un fine preciso: studiare sul campo quali caratteristiche dovesse avere un capo d’abbigliamento, un pantalone, per essere adatto a soddisfare le esigenze reali di questa gente.

Il pantalone dunque doveva essere semiaderente per garantire al tempo stesso la massima libertà di movimento ed il minor impiccio possibili. Doveva perciò essere a tubo con i gambali sufficientemente stretti da poter essere infilati negli stivali, ma al tempo stesso da poter essere eventualmente indossati anche sopra di questi, perfettamente adatto anche agli scarponi, l’altra calzatura usata. Doveva avere occhielli larghi per consentire l’uso di un necessariamente grosso cinturone; essere realizzato in un tessuto assai robusto e strapazzabile.

Per questo si usò il blu Genova, da cui poi il nome: blu jeans. La rispondenza alle esigenze pratiche di una così eterogenea tipologia di persone fece sì che il jeans superasse tutte le cosiddette mode ed anche i tempi e giungesse inalterato sino a noi ed ai nostri giorni. Il sessantotto rivendicava esattamente quello che rivendicavano in ultima istanza i jeans che molti suoi protagonisti indossavano: il ritorno alla concretezza umana ed antropologica, contro i dogmatismi sociali ideologici del tempo. Ecco il significato. Il mito è anche riattualizzazione di un significato: la rivendicazione della concretezza umana ed antropologica di contro ai dogmatismi sociali ideologici del tempo e di ogni tempo.

 
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