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Se in nome della sicurezza si sacrificano anche i sentimenti

A Sesto Calende, nel varesotto in camicia verde, si sta consumando una vicenda dai contorni amarissimi. Una coppia di cinquantenni è stata separata con la forza in virtù delle norme previste dal cosiddetto "pacchetto sicurezza" voluto dal governo. Lei è una lombarda purosangue e lui è tunisino, da tre anni conviventi e felici. Fino a una mattina di questa estate, quando d'improvviso l'uomo è stato portato via dai vigili urbani durante un banalissimo controllo per un certificato di residenza perché trovato senza permesso di soggiorno. Il prezioso documento non gli è stato rinnovato in quanto da poco aveva perso il lavoro, effetto collaterale dell'interminabile e odiosa crisi economica. E da quel giorno maledetto è iniziata la sua odissea.

Rinchiuso senza aver commesso reati dapprima presso il CIE di Bari e dopo in quello di Modena, dove successivamente ci sarebbe stato un tentativo di fuga di massa al quale però lui ha evitato di prendere parte. Ma la buona condotta non gli è servita a scansare la brutale rappresaglia degli agenti. Viene ferito in modo grave, e con altri reclusi del Centro denuncia continui pestaggi indiscriminati. "La polizia è entrata di notte con i manganelli e ha colpito anche chi non ha fatto niente", dice lo sfortunato protagonista della storia con uno spiccato accento padano. Sì, perché l'uomo vive in Italia dal lontano 1982 e in tutto questo tempo non si è mai fatto segnalare alle autorità.

Ma adesso la prefettura di Varese vuole rispedirlo a Tunisi, anche se si è ormai rifatto una vita nel nostro Paese e manca dalla sua terra da più di dieci anni. A Sesto Calende lo conoscono tutti, è ben integrato. C'è una donna innamorata ad attenderlo assieme ai suoi tanti parenti, anch'essi immigrati ma tutti regolari. Eppure è costretto a starsene in una gabbia in attesa di essere identificato. Prima di finire in cella ha fatto tanti lavori, spesso senza un salario ma con la certezza di poter rinnovare il suo permesso di soggiorno. 

La sua compagna si sta battendo per tirarlo fuori dall'inferno nel quale è finito: "Carabinieri, vigili e polizia sapevano bene che non aveva più i documenti da quando ha perso il lavoro, ma col nuovo Sindaco leghista l'apparato dei controlli è diventato improvvisamente più severo. Lui per me è un aiuto in tante cose e ora non so cosa fare. Lo hanno trattato come un delinquente". Una prova davvero dura da sostenere per una tranquilla signora di mezza età. Che ha già speso più di mille euro per gli avvocati non vivendo certo nell'oro. Anche sentirsi al telefono è assai costoso: l'unico mezzo di comunicazione presente nel CIE è una cabina alla quale si può chiamare da fuori componendo un salatissimo 199. Perché i Centri di Identificazione ed Espulsione formalmente non sono definiti carceri, ma vietano ugualmente i cellulari oltre che gli orologi. Si tratta di una prassi dura e inaccettabile, come ad esempio sottolinea il Rapporto "Al di là del muro" di Medici senza Frontiere.

Un detenuto in strutture simili costa alle casse pubbliche la cifra record di 75 euro al giorno. Nel caso dell'uomo tunisino tale cifra viene spesa per trattenere con la forza un immigrato che lavora da 30 anni nel Nord Italia. Circostanza che gli è valsa ad ottenere la mancata convalida da parte del Giudice di Pace di Bari della misura detentiva decisa dal Prefetto di Varese, con una sentenza che ha tenuto conto del caso individuale citando nelle motivazioni "la lunga permanenza regolare dello straniero sul territorio nazionale" e "i permessi di soggiorno non rinnovati a causa della crisi economica e della conseguente riduzione dei posti di lavoro nella zona in cui risiedeva". Insomma, a parere del giudice andavano applicate misure meno coercitive così come stabilito dalla direttiva europea sui rimpatri che prevede il rientro volontario. E come avrebbe richiesto semplicemente il buon senso.

E infatti il 4 agosto è stato rimesso in libertà dal CIE di Bari ed è tornato a Varese, presentandosi in Questura cinque giorni dopo come la stessa sentenza suggeriva. Solo che da lì lo hanno subito dirottato al CIE di Modena, proprio come si usa fare con i deportati. E qui al danno si è aggiunta pure la beffa, considerato che oltre a subire violenze fisiche durante la reclusione c'è stata la brutta sorpresa riservata dal Giudice di Pace di Modena, che a differenza di quello barese ha proceduto alla convalida della detenzione a meno di una settimana dal rilascio.

In Italia sono stati attivati 17 CIE dove di solito, oltre a quanti provengono direttamente dal carcere, finiscono uomini e donne colpevoli solo di aver lasciato scadere il proprio documento di soggiorno. Il limite massimo della detenzione è stato recentemente aumentato a 18 mesi, con la legge approvata dal Parlamento. Ma nella maggior parte dei casi, quella che si configura come una vera e propria "deportazione" non arriva a buon fine e i soggetti reclusi vengono rimessi in libertà senza documenti, fino a quando non saranno nuovamente fermati dalle forze dell'ordine per un semplice controllo d'identità. 

Si tratta di un circolo vizioso e dispendioso, per giunta profondamente disumano. Tanto che per protestare contro la Circolare 1305 del Ministro Maroni, che tra le altre cose vieta alla stampa e a diverse organizzazioni assistenziali l'ingresso nei CIE onde verificare direttamente le condizioni di permanenza dei detenuti, il 25 luglio scorso si è svolta la giornata di mobilitazione nazionale "lasciateCIEntrare", voluta dai sindacati e dall'ordine dei giornalisti e sostenuta da alcuni parlamentari.

Come ci racconta il sito Fortress Europe, le principali vittime del giro di vite sulla clandestinità sono soprattutto "italiani", rigorosamente fra virgolette. Nel senso che non hanno la cittadinanza ma vivono in Italia da 20 o 30 anni, sforzandosi di tenere sempre un comportamento degno e rispettoso delle leggi. E' gente che magari ha avuto il permesso di soggiorno con le sanatorie degli anni '90, e che poi se l'è visto ritirare per scadenza dei termini essendosi purtroppo ritrovata senza datore di lavoro al momento del rinnovo. Le loro famiglie abitano qui e rischiano di essere spezzate in nome del "dogma" della sicurezza. Proprio come nel caso di Sesto Calende.

Con conseguenti e ripetuti drammi esistenziali che non di rado conducono al suicidio, oppure all'abuso di psicofarmaci per tentare disperatamente di non perdere la testa offrendo il pretesto per ulteriori maltrattamenti. L'auspicio è che almeno i sentimenti, piattaforma indispensabile alla piena covivenza civile fra le persone, vengano risparmiati dalla foga devastatrice del cinismo e dell'egoismo moderni. Non in nome di un malinteso ideale multiculturalista ma per la semplice e fondamentale esigenza di non smarrire del tutto la nostra più intima (e vera) essenza umana. Come direbbe il vecchio filantropo Benjamin Franklin: "Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza".

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