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Russia vs Ucraina: una storia molto, fin troppo ortodossa

Mentre infuria il conflitto tra Russia e Ucraina, il direttore della rivista Raffaele Carcano fa una panoramica storica sul complesso ginepraio religioso nello scacchiere russo e ucraino sul numero 3/22 di Nessun Dogma. Per capire meglio le ragioni di questa guerra, bisogna infatti considerare anche questioni come le divisioni interne nella Chiesa ortodossa e l’identitarismo nazionalista che fa della religione uno dei suoi punti cardine. 

Non immaginavamo possibile una guerra tra i due più estesi paesi europei. Dimenticavamo di appartenere a una specie animale particolarmente bellicosa: una guerra non è quindi mai inspiegabile. Ma conoscevamo tutto sommato poco di quei due paesi, della “loro” religione, e di quanto incida sulla politica.

E dire che la “loro” religione è ciò che era la “nostra” un millennio fa. Ma a scuola non lo si insegna. Non si insegna ciò che successe dopo che Costantino, l’augusto della parte latina dell’impero romano, conquistò anche quella greca e ci andò a vivere. La scelta del primo imperatore cristiano influì infatti enormemente sulla chiesa. Non solo perché le diede enorme potere, ma perché creò il modello delle relazioni tra trono e altare descritto in seguito come «cesaropapismo»: Costantino dirigeva l’impero e agiva come il capo della chiesa – che accettava senza fiatare, soddisfatta di quanto aveva ottenuto.

Tutti i concili ecumenici del primo millennio furono convocati da imperatori. Uno di essi, il “teologo” Giustiniano, stabilì che al vertice della chiesa ci sarebbero stati cinque patriarchi da lui nominati: quelli di Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria d’Egitto, Antiochia di Siria e Roma.

Non molto tempo dopo Giustiniano, però, l’impero bizantino perse gli ultimi quattro. Mentre tre finirono sotto i califfi (continuando a non fiatare), il vescovo di Roma sfruttò invece l’instabilità politica del medioevo europeo per innovare in grande stile. Cos’abbia combinato il papato nell’ultimo millennio lo sappiamo abbastanza bene tutti, anche quando non lo si insegna a scuola, ma il cambiamento più importante è stato forse il passaggio dal cesaropapismo a una sorta di “papocesarismo”: il papa cominciò a dirigere la sua chiesa e un suo stato.

Cos’abbia invece fatto la chiesa ortodossa dopo lo scisma d’oriente del 1054 (in cui a essere scismatica fu però la chiesa romana) ci è invece quasi sconosciuto. Forse perché non ha fatto granché, dal punto di vista religioso: zero concili, contro tredici cattolici. Dal punto di vista politico… anche. Per quanto abbia cercato di nobilitare il proprio atteggiamento subalterno parlando di «sinfonia» tra stato e chiesa, il suo ruolo non è andato mai oltre quello del musicista d’accompagnamento.

Nel 1453 anche Costantinopoli cadde in mano al sultano turco. Il patriarca, da tempo indebolito, aveva già concesso autonomia (‘autocefalia’, nel loro gergo) ad alcune chiese nazionali. Mosca, nel 1589, ottenne addirittura il patriarcato. La Russia era diventata il più grande paese ortodosso, con ambizioni conseguenti: voleva entrare nel quintetto base dei patriarchi al posto dei “traditori” vaticani, ma aspirava pure a diventare la «terza Roma»: quella che superava le altre due guidando insieme oriente e occidente – sia politicamente, sia religiosamente.

Tutto in puro stile costantiniano, ovviamente, con la chiesa a reggere la coda allo zar – persino quando, nel 1721, Pietro il grande sostituì l’istituzione patriarcale con un sinodo da lui nominato. L’atteggiamento ortodosso non cambiò nemmeno dopo la rivoluzione del 1917 e la nascita dell’Urss: tanto si è scritto delle persecuzioni contro i cristiani, ma tanti sono stati anche i particolari omessi. Per esempio, che furono proprio i bolscevichi a ripristinare il patriarcato nel 1917; che Stalin rese la sede vacante nel 1925 ma la ripristinò nel 1941; che la chiesa ortodossa ebbe sempre un trattamento preferenziale rispetto alle altre confessioni religiose, da cui ricevette numerosi beni per grazia comunista; e che le critiche nei confronti del partito furono modeste e deboli.

Caduto il regime, il patriarcato canonizzò l’ultimo zar (insieme a tutta la sua famiglia), che andò così ad aggiungersi a san Costantino e a san Giustiniano. Ha più volte chiesto leggi contro aborto, contraccezione, ateismo e persone Lgbt+, e si è espresso a favore della pena di morte. Posizioni arretratissime persino per il mondo ortodosso. Ma a Mosca non se ne curano, fermi al motto di età zarista: «ortodossia, autocrazia e nazionalismo». Costantinopoli non è considerata altro che una delle due radici dell’ideologia del «mondo russo», ed è dunque pregata di adeguarsi agli attuali rapporti di forza.

La seconda radice è Kiev, dove effettivamente è cominciata la storia russa. Anche se non capisce con chi. Sappiamo soltanto che, poco prima della fine del primo millennio, nelle estremità orientali dell’Europa vivevano diverse tribù, slave e non slave (finniche, baltiche, germaniche, persino turche e iraniche), in uno stato di conflittualità permanente. Tutte mantenevano rapporti commerciali con mercanti (e mediatori) scandinavi: la stessa parola rus’ è di origine scandinava. Da tale nebulosa sorse una struttura di potere dalle precarie apparenze statali, con epicentro Kiev.

Il suo gran principe Vladimir, nel 988, era diventato cristiano ed era stato battezzato in Crimea. E come d’abitudine, il popolo aveva dovuto fare altrettanto; il patriarca di Costantinopoli aveva nominato un metropolita; l’imperatore bizantino aveva dato in sposa la figlia al nuovo alleato – e a questo punto non ci sarebbe bisogno di aggiungere che anche Vladimir sarà canonizzato, insieme alla moglie e persino alla nonna (Olga, con un passato di sadica vendicatrice).

La nebulosa non durò a lungo, in un periodo – il medioevo – in cui la stabilità era ovunque merce rara. Nel 1223 ci fu l’invasione mongola, e l’occupazione durò due secoli. Quando terminò nacquero diverse realtà politicamente autonome, tra cui un importante principato intorno a Mosca e un primo, effimero stato ucraino già nel cinquecento. E non parlavano la stessa lingua. Perché le differenze tra russi, ucraini e bielorussi esistono, sono sostanziali e sono maggiori di quelle tra tedeschi e austriaci (che oggi quasi nessuno pensa che debbano riunificarsi).

Per comprendere quanto l’ideologia del mondo russo sia imperialista bisognerebbe pensare a cosa sarebbe l’Italia se l’impero spagnolo fosse sopravvissuto fino al 1917 e se i suoi continuatori odierni pretendessero che il nostro paese faccia parte del mondo ispanico, perché italiano e portoghese non sarebbero altro che dialetti castigliani.

Kiev, finita prima nel granducato di Lituania e poi sotto la Polonia, entrò infatti nei domini zaristi solo nel 1686, e il patriarca di Costantinopoli cedette subito (ma «temporaneamente») la giurisdizione sull’Ucraina al patriarca di Mosca. Gli zar cominciarono a definirsi imperatori «di tutte le Russie» perché pensavano che ve ne fossero tre: oltre a quella propriamente detta (la Grande), c’erano anche la Piccola (l’Ucraina al netto delle terre sotto dominio asburgico) e la Bianca (la Bielorussia).

Sfaldatasi l’Urss, accantonati Gorbaciov e Eltsin, dal 1998 la Russia è nelle mani di Vladimir Putin. La frequenza alla messa è bassissima ed è circoscritta quasi esclusivamente ad anziane. Stando ai sondaggi d’anteguerra, la maggioranza della popolazione è favorevole alla separazione tra stato e chiesa. L’identitarismo ortodosso, veicolato dalle autorità, ha fatto però presa anche qui, ed è incarnato da un leader che non è un esempio di pio fedele, ma che è sempre molto solerte nell’accontentare la sua chiesa, confidando forse anch’egli in una futura canonizzazione.

Ed ecco la messa al bando dei testimoni di Geova (con confisca dei beni), norme anti-proselitismo, diversi “blasfemi” in carcere, l’inno nazionale che menziona la protezione di Dio sulla patria, il ritorno della religione a scuola, una nuova costituzione che riconosce la «fede in Dio» come fondamento dello stato, definisce il matrimonio come un’unione tra un uomo e una donna e si accompagna al divieto dei Pride e di ogni altro tipo di «propaganda gay». Non è dato sapere cosa succeda precisamente nella Cecenia governata dal bellicoso islamista Kadyrov, alleato di Putin: si parlava di campi di concentramento, ma il ministro della giustizia ha sinistramente comunicato di non essere a conoscenza dell’esistenza di un solo omosessuale nella provincia.

È stata chiusa anche Memorial, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani creata dal dissidente sovietico e premio Nobel Andrei Sakharov – a cui, per uno scherzo della storia, è intitolato un riconoscimento per la libertà di pensiero assegnato dall’Unione Europea a partire del 1988, quando ancora esisteva l’Urss. Gli oppositori politici non se la passano meglio; Aleksej Navalny è in carcere, Garri Kasparov in autoesilio, tanti altri sono morti più o meno misteriosamente. La Russia ha subito numerose condanne dalla Corte europea dei diritti umani, da cui ora è uscita. Ma il patriarca Kirill non ha mai espresso critiche al regime: al contrario, ritiene Putin «un miracolo di dio». Del resto, stando agli archivi sovietici, pare abbiano lavorato entrambi al Kgb (come anche il predecessore di Kirill).

Non tutto il clero ortodosso ha accettato l’andazzo, ma la stragrande maggioranza sì. La chiesa russa è stata sostenuto dal governo nel suo sforzo proselitista fuori dai confini (in Africa, in Palestina), l’ha ricambiato durante l’invasione della Georgia del 2008 e l’intervento militare in Siria nel 2015, e lo ricambia ora durante l’invasione dell’Ucraina: ideologicamente intercambiabili, combattono insieme per espandersi entrambi, anche a spese di nazioni e comunità ortodosse più antiche della loro. La santità della guerra ha trovato espressione nella canonizzazione dell’imbattuto ammiraglio zarista Ushakov (diventato protettore della marina e dei bombardieri nucleari) e nell’edificazione della cattedrale delle forze armate, in cui gli arcangeli guidano gli eserciti e Gesù brandisce una spada. Secondo Kirill, il servizio militare rappresenta «una manifestazione attiva di amore evangelico per il prossimo».

Anche quello prestato in Ucraina, ovviamente. Un paese che divenne una repubblica (socialista sovietica) nel 1922, a cui il Pcus mutò i confini in modo non sempre coerente con la popolazione che ci viveva, e che riacquisì l’indipendenza nel 1991. Si sono alternate presidenze allineate a Mosca con presidenze europeiste, ma sempre in un’ottica di strette relazioni stato-chiesa. Quando nel 2013 Janukovich accentuò il legame con Mosca, una serie di proteste nota come Euromaidan portò alla sua rimozione, ma innescò l’annessione russa della Crimea e l’inizio della guerra secessionista del Donbass. Alla presidenza ucraina salì Poroshenko, europeista ma nazionalista quanto Putin: il suo motto è «esercito, lingua e fede».

Come Putin fa coppia con Kirill, Poroshenko ha lavorato in tandem col vescovo Epifanio, riuscendo a ottenere l’autocefalia da Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli. Il presidente la definì «l’indipendenza finale dalla Russia». Ora in Ucraina ci sono dunque una chiesa ortodossa nazionale e una dipendente da Mosca. I parroci si sono sentiti liberi di collocare la propria parrocchia sotto la chiesa preferita… in alcuni casi, senza nemmeno informare i fedeli.

La svolta c’è stata nel 2019, con la vittoria del russofono Volodymyr Zelensky. Reduce dal successo di una serie tv in cui interpretava un insegnante eletto presidente, aveva creato un partito centrista pieno di giovani con lo stesso nome della fiction (peraltro di stampo maoista: «Servitore del popolo»). Giurando grande impegno contro la corruzione e per un paese più tranquillo, convinse gli ucraini nonostante le accuse di populismo e i dubbi sui suoi finanziatori. Per quanto di nostro interesse Zelensky, ebreo non credente, promise che non si sarebbe intromesso nelle questioni religiose.

Una promessa mantenuta, questa, e con ricadute positive. Se nella mappa culturale di Inglehart-Welzel, basata sui dati del World Values Survey, fino a pochissimi anni fa Russia e Ucraina sembravano indistinguibili, oggi in Ucraina i Pride si tengono, l’accettazione sociale dell’omosessualità sta migliorando, e il report di Humanists International sulla libertà di pensiero colloca il paese non solo davanti alla Russia, ma persino all’Italia.

Fanno quindi sorridere (in un contesto tragico) le dichiarazioni putiniane di voler «denazificare» l’Ucraina: di simpatizzanti sicuramente ne esistono (e sarebbe stato opportuno non inquadrarli nell’esercito), ma che dire del totalitarismo dello stato russo contemporaneo, che peraltro finanzia a piene mani partiti esteri di estrema destra (Italia compresa), il cui esercito usa metodi non dissimili da quelli delle SS e combatte fianco a fianco con le milizie cecene? Al contrario, proprio il conflitto voluto dal Cremlino potrebbe rafforzare il nazionalismo violento: la guerra sta forgiando sulla russofobia un’identità ucraina che mai era stata definita meglio prima. L’abbandono della lingua russa è ormai generalizzato, e chi non demorde rigetta comunque Putin.

Contro ogni aspettativa, quantomeno dal punto di vista comunicativo, l’ex comico ha sconfitto per ko l’ex capo dell’ex Kgb. La Russia è stata costretta ad accentuare il pugno di ferro interno, e anche all’estero ha ricevuto pochi sostegni espliciti. Simul stabunt, simul cadent, anche la chiesa ortodossa russa ha subito un grave danno d’immagine. Benedicendo la guerra perché contrapposta alle «parate gay» (naziste?), Kirill si è collocato più vicino ai talebani che ai cristiani non russi (con l’eccezione, forse, dei fondamentalisti Usa). È riuscito a farsi criticare persino dal metropolita che sta a capo degli ucraini fedeli a Mosca, mentre le altre chiese ortodosse, autocefale o no, lo guardano ormai con estrema diffidenza, così come i fedeli che vivono in occidente: alcune comunità hanno già interrotto i rapporti.

Kirill teme che il “suo” mondo sinfonico russo crolli con la secolarizzazione e la laicità, come è avvenuto nella vicina Scandinavia. Non è l’unico a pensarla così. Pensavate forse che il Vaticano non mettesse becco? Sbagliato. L’ha fatto fin dal 1596, quando alcune comunità ortodosse (allora sotto sovranità polacca) accettarono la supremazia papale, pur mantenendo i propri riti greci. L’ha fatto nel 1917, invitando i bolscevichi a un’intesa. E l’ha fatto dopo la caduta dell’Urss. Nella cristalleria slava, Giovanni Paolo II si comportò come un elefante. Quando, nonostante l’esplicita richiesta di rinvio formulata dai vertici ortodossi, nel 2001 si recò in visita in Ucraina, si tenne addirittura una marcia antipapista. Tra l’altro, Wojtyla beatificò Roman Lysko, prete greco-cattolico ucciso dalla polizia politica staliniana che (strano ma vero) gli voleva imporre il ritorno sotto il patriarcato.

Il papa polacco esagerò con le nomine di connazionali, in Ucraina come in Russia. Quando fu eletto Ratzinger, però, lo strappo fu ricucito, e già nel 2009 la chiesa russa gli chiese di combattere insieme i «pericoli» rappresentati dalla laicità e dall’ateismo «militanti». La proposta sfociò nel documento comune antilaico sottoscritto da Francesco e Kirill (a Cuba, due anni dopo l’annessione della Crimea), che lamentava la «discriminazione» subita dai cristiani in Europa. Nel 2019 il papa accolse Putin in Vaticano, esprimendo «sincera e gioiosa soddisfazione» per l’incontro.

In compenso, il Vaticano non ha mai riconosciuto la chiesa autocefala ucraina, e con gli ultimi due pontefici ha anche ridimensionato il ruolo dei greco-ortodossi. Una volta invasa l’Ucraina, Bergoglio ha compiuto soltanto atti simbolici, come la consacrazione dei due paesi alla Madonna e la via crucis con una russa e un’ucraina. Se da un lato ha definito «pazzi» gli stati che hanno aumentato le spese militari, dall’altro non ha mai dato un nome all’aggressore: al massimo ha condannato la guerra – come un Salvini qualsiasi, e senza ovviamente ricevere le critiche riservate a Salvini. Anche quando viene fatto in buona fede, proporsi come mediatori, chiedere la pace e vendere speranze non costa nulla, se a soccombere sono altri. Sarebbe interessante sapere quale sarebbe la sua posizione, se la mafia possedesse armi nucleari.

Mentre scrivo non posso prevedere quale sarà la situazione nel momento in cui mi leggerete. Limitandoci ai dati di fatto, è lecito constatare che, negli ultimi anni, la Russia ha preso una strada sempre più autoritaria, l’Ucraina quella opposta. Ed è una scelta che dovrebbe essere sostenuta con forza, se ci si batte per un mondo migliore. Tenendo presente che – la storia ce lo insegna – la brutalità può purtroppo essere vincente.

Forse è vero, come sostiene qualcuno, che il nostro continente sta diventando politicamente irrilevante. Religiosamente, lo è però già da qualche tempo. Ciò che ci distingue sono la maggiore (anche se purtroppo discontinua) attenzione prestata alla libertà e ai diritti umani, e la capacità di lavorare insieme superando contrapposizioni plurisecolari. Sono buone pratiche che suscitano speranze in ogni parte del pianeta. Andrebbero valorizzate con più convinzione. E poi chissà, forse tra non molti anni accoglieremo nell’Ue una Russia compiutamente laica e democratica.

Raffaele Carcano

 

 

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